Dramophone (1976)

Dramophone  è presentato nel 1976 a Roma, allo studio Cannaviello.
L’opera è suddivisa in tre ‘stazioni’.
Nella prima Pessimismo, si vede un cane vero davanti ad un vecchio grammofono, allusione al marchio discografico della Deutsche Grammophon (la Voce del Padrone), quale emblema ambiguo del mondo. Sulla parete è posto il disegno di un grande disco, metafora di un mondo già inciso. La predeterminazione del destino è un tema ricorrente nel pensiero dell’autore.
Nella seconda stazione Scetticismo e dolore un gruppo di giovani in mezzo al pubblico danza a tratti su musiche rivoluzionarie accanto ad un cesto di rose rosse, davanti alle immagini a parete del poeta Majakovskij, idolo intellettuale, e del generale Huerta, assassino del ribelle messicano Emiliano Zapata, simbolo virtuoso di ribelle effettivo.
Nell’ultima stazione Cinismo, psicologia, e virtù nazionale un anziano attore cinematografico, Fjodor Chaliaplin Jr., figlio del grande basso russo Chaliaplin, seduto su una poltrona, racconta la sua biografia.
Chaliaplin nella veste di uno “schermo che parla” attualizza i ricordi. La sua testimonianza storica lo vede presente da bambino, nel 1910, alla corte degli Zar. Da ragazzo è presente agli eventi della Rivoluzione Russa, nel 1917.
L’attore risponde in russo, tramite un amico italo-russo Dimitri Tamarov, alle domande del pubblico. Le sue constatazioni di testimone vivente sconcertano gli spettatori.
Interrogato sui giorni della Rivoluzione Chaliaplin risponde: “Credete a me, la Rivoluzione russa è stata solo un grande incidente”, provocando sconcerto in chi lo ascolta.
Fuggito con la famiglia (la madre italiana era una ballerina del Bolshoi di Mosca), durante una tournée in Svizzera, si trasferiscono in Germania. Ma sono gli anni Trenta, i tempi dell’ascesa nazista. La famiglia Chaliaplin  di nuovo espatria, va negli Stati Uniti. Sono i tempi del New Deal. Nella grande guerra, con le truppe americane Fjodor Chaliaplin Jr giunge a Roma. Finita la guerra, vi si ferma. Prima di morire riprende in Italia la sua carriera di attore. Interpreta il monaco cieco e assassino de “Il Nome della Rosa”di Umberto Eco.
“Essere testimoni della storia non è sufficiente” conclude Mauri, “occorre un metodo razionale, per orientarsi. Senza storia,ossia senza analisi critica, non c’è possibilità di giudizio. La Storia lo è, è un giudizio possibilmente, profondo”.
In quest’ultima stazione viene quindi proposta un’immagine non – immagine delle storie del mondo, evidenziando la necessità del metodo storico-critico per la resa di un giudizio finale esercitato dalla memoria proiettata nel presente. Il presente mostra le metodologie abituali degli eventi, per cui è confrontabile, aiuta nella diagnosi interpretativa dei fatti storici. (Dora Aceto)
 
Data e luogo di esposizione
 
1976 –  Studio Cannaviello, Roma
1994 – Retrospettiva Fabio Mauri. Opere e Azioni 1954-1994, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, a cura di Carolyn Christov Bakargiev, sovrintendenza di Augusta Monferini
2016 – Fabio Mauri Retrospettiva a luce solida, Museo MADRE, Napoli, a cura di Laura Cherubini e Andrea Viliani (elementi performance)
 

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