Roma, Villa Medici, maggio 1999
Hans Ulrich Obrist: Hai cinque minuti per fare un intervista?
Fabio Mauri: Si, certo
HUO: Puoi raccontarmi un po’ lo spazio?
FM: Cercando lo spazio qui a Villa Medici, ho scoperto che uno studio che vedevo sempre dalla strada - quando con mia madre salivamo per il Muro Torto e lei mi diceva “quello è lo studio di nonno Roberto” - in realtà è il confine dei giardini di Villa Medici: ossia nonno Roberto, mio bisnonno, aveva lo studio qui a Villa Medici. Allora, visto che il tema della mostra era la memoria, ho ricercato la memoria di questo nonno che aveva anche un figlio e un fratello pittore, ma lui era il più noto: lui e Battaglia, il cugino, sono alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna. Ho ritrovato lo studio e ho cercato di ricostruire questa memoria, facendo un viaggio genealogico, di cui non mi ero mai occupato prima in vita mia e ho scoperto che queste persone di cui ci sono molti ritratti, erano persone eleganti, spiritose, ragionevoli, che hanno vissuto vite anche molto tragiche: qualcuno si è suicidato, altri sono morti in guerra, ma nel complesso è stata gente fortunata, ricca, elegante, brillante, molto spiritosa e molto sensibile. Questi ritratti, è difficile dirlo in un’intervista, mi hanno dato un forte senso di inesistenza: di fronte a queste vite molto compiute, eleganti, di fronte a questi ritratti che espongono, danno testimonianza, mi sono sentito a tempo, a tassametro. Questa vita è assolutamente relativa, cosa che, sì, so, ma un conto è sapere le cose, un conto è percepirle come sentimento. Quindi ho ricostruito questo mio bisnonno, i quadri che ho potuto ritrovare e anche una famiglia che non conoscevo
HUO: Attraverso la ricerca?
FM: Si, attraverso la ricerca ho saputo che a Roma abitano altri trenta miei parenti che non ho mai visto in tanti anni di vita e che invece custodivo nei quadri di questo bisnonno Roberto, è stato molto interessante. Ho fatto questa sala unendo un altro elemento che è un divano che era appartenuto a mia nonna, cioè la nuora di Roberto Bompiani moglie del generale Giorgio Bompiani, qui rappresentato in due versioni: da bambino e già da grande. Divano-sofà divenuto di mia madre, poi di mia sorella e quindi mio, ho cercato di ricostruire tutte le persone che vi si sono accostate o sedute: allora, con molta verosimiglianza, si è seduto Gabriele Dannunzio - perché mio nonno materno è stato impresario de “La figlia di Iorio” di Dannunzio - e da lì in poi molti che ho segnato su una targa che è sopra il divano: sono persone che ho visto - io non ho pochi anni - come ad esempio, Luigi Pirandello, Alberto Savinio, Filippo De Pisis…
HUO:Che tu hai incontrato?
FM: Si certo, ero piccolo, ma mio padre era segretario di Luigi Pirandello e quindi veniva a casa nostra per discutere i problemi dei suoi contratti: me lo ricordo con Pitoëff che lavorava a Parigi… io avrò avuto dodici anni ma me lo ricordo molto bene, ero un bambino molto precoce. E poi via via gli altri: Ettore Petrolini, molto amico di mia mamma, Elio Vittorini, Guido Piovene… Mio zio poi era un editore, io ho lavorato con lui molti anni e quindi su questo divano si sono seduti molti autori italiani molto noti che erano anche miei amici: Alberto Moravia, Flaiano, Italo Calvino, Ginzburg etc. Fino - avendo ereditato io questo divano trucito - a tutti i grandi pittori americani con cui ci siamo seduti quando negli anni Sessanta venivano a Roma: De Kooning, Rothko, Marca-Relli, Andy Warhol, ovviamente…
HUO: Questi erano amici tuoi o amici dei tuoi genitori?
FM: No, miei, miei…
HUO: Cioè già amici dei tuoi genitori e dopo amici tuoi?
FM: No questi erano amici solo miei, non dei miei genitori. Mio papà morì, poi loro erano a Milano mentre io mi sono trasferito a Roma che era il luogo d’origine. Proprio questo Roberto e tutti i parenti che ho trovato abitavano in via Condotti e in via Belsiana, che è qui dietro: sono nati in via Belsiana, come dico nella frase che corre lungo il muro. Ecco, allora, in questa specie di targa monumentale, ci sono tutti i nomi di quelli che ho ricordato, ma ogni tanto me ne vengono in mente degli altri che mi sono dimenticato e che erano importanti.. se non miei amici, miei ospiti, fino ai nostri giorni, fino a te, ci sei anche tu, che sei venuto a casa mia…
HUO:Eh si! Quando siamo venuti a casa tua ci hai parlato di molte cose legate alla memoria e anche di una rivista che hai fatto con Pasolini. Potresti parlarmi di questa rivista?
FM: Si. Nella mia, così, curiosa precocità, seguendo il lavoro di mio padre, che era distributore di libri ed editore con Mondadori, siamo stati a Bologna e conobbi Pier Paolo Pasolini che aveva tre-quattro anni più di me…
HUO:In che anno era questo?
FM: Questo era nel 1937-38 e facemmo subito immediatamente una grandissima amicizia: lui con me e con la mia famiglia, che era una famiglia molto aperta e con un indirizzo intellettuale forte. Con Pasolini fondammo una rivista che si chiamava “Il Setaccio” in cui parteciparono molti che poi hanno mantenuto la loro vocazione di poeti: c’era Decio Cinti, più grande di noi ed ex segretario di Marinetti, c’era il poeta Leonetti, il poeta Roversi, Giovanna Bemporad che è ancora viva (come Leonetti, come Roversi) e che già da allora aveva iniziato la traduzione - oltre che di Hoelderlin - dell’Odissea, che è stata pubblicata lo scorso anno e che è rimasta una mia cara, carissima, amica ed era anche molto amica di Pier Paolo, una bravissima poetessa. E poi altri, diversi altri…
Con Pier Paolo è stata un’amicizia molto intensa, attraverso anche tutte le sue vicissitudini come la morte del fratello minore in guerra… Anni dopo ci rincontrammo a Roma, dove lui si era trasferito e anch’io. Il nostro affetto, che è durato fino alla sua morte (ci frequentavamo intensamente) ha avuto un momento di raffreddamento perché io appartenevo chiaramente a quella che si può definire un’avanguardia neo-dada romana verso cui lui aveva molta diffidenza: apparteneva a un gruppo di intellettuali organici o del realismo socialista, come si definiva allora, molto marxisti mentre noi eravamo quasi un po’ dandy, proprio per motivi ideologici, e lui ci considerava troppo borghesi. Diceva: “L’avanguardia è figlia della borghesia” e io dicevo: “Si, è vero, ma è inutile che io mi finga non borghese. La mia cultura è questo etc.”.
Negli ultimi anni lui mi invitava sempre a fare i suoi film, mi ha sempre invitato, non so perché… uno l’ho fatto, la “Medea” insieme alla Callas: c’è un certo re Gedeone che sono io! Allora ero sempre molto diffidente, lui mi invitò anche nel Vangelo, ma io diffidavo di un Vangelo fatto da Pasolini. Dopo averlo visto ho constatato che era un’opera estremamente intelligente e spirituale e gliel’ho dichiarato. Allora feci la “Medea”, feci la “Medea” per questo. Dissi di si a un suo film, e lui fece in contraccambio una mia performance che si chiamava “Intellettuale” al Museo di Bologna in cui proiettavo il suo “Vangelo Secondo Matteo” su di lui, seduto, sulla sua camicia: ridavo la responsabilità di un’opera al suo autore. Doveva far con me una specie di tournèe due mesi dopo… ma nel frattempo fu ucciso e io feci questa performance, che ha girato mezzo mondo, sulla sua camicia e la sua giacca che, cosa curiosa, ogni volta viene rubata… non è la sua autentica camicia, non è la sua autentica giacca e ogni volta, in uno o l’altro museo, qualcuno la trattiene. Pier Paolo per me è stato come il grande Meaulnes, proprio il grande amico e un maestro… aveva questo atteggiamento dolce e profondo in tutti i rapporti a cui lui teneva.
HUO:E la rivista l’avete fatta quando?
FM: La rivista l’abbiamo fatta dal ’38 all’inizio della guerra, al ’40, un paio d’anni… due o tre anni… i numeri sono quasi introvabili…
HUO: E non è mai stata ripubblicata?
FM: No, non è mai stata ripubblicata ma sono usciti due libri sulla rivista, due libri storici che a me fanno anche un po’ sorridere perché, almeno io, ero un ragazzino, avevo quattordici anni…
HUO: Come si chiamano?
FM: La rivista? “Il Setaccio”, sono due pubblicazioni sui giovani de “Il Setaccio”. C’è anche uno studio americano e inglese su questo gruppo anche perché, curiosamente, i più giovani di noi, quasi prendendo modello da questo gruppo bolognese, hanno poi creato quel gruppo molto importante intellettualmente in Italia che è stato il gruppo de il Mulino, la casa editrice di Bologna, legato all’editoria, allo studio, con una tendenza cattolica e marxista contemporaneamente, molto legato all’Università. Questa casa editrice esiste ancora e, come dico, è fatta dai fratelli minori di questo primo gruppo bolognese condotto da Pasolini, Giovanna Bemporad, mia sorella Silvana - che ha poi sposato Ottiero Ottieri, lo scrittore - me ed altri, Leonetti, Roversi, Ardigò, insomma tutta gente ancora viva, grazie a Dio, che hanno una grande attività universitaria
[quasi concludendo…]
HUO: Grazie
FM: Niente, grazie a te
HUO:C’era un’altra, anzi due o tre altre questioni … hai tempo? possiamo anche farlo dopo…
FM: Si, ho tempo, “tempissimo”, sto aspettando gli altri quadri…
HUO: Possiamo altrimenti fare uno stop…
FM: Ma non avevo capito che c’era anche il video, una cosa meravigliosa quella macchina, pensavo che tu registrassi solo…
HUO:No…
FM: Aaah! [si tocca la testa come a pettinarsi un po’]
HUO:L’altra cosa era legata al cinema, perché tu parli di Pasolini e l’ultima volta, quando abbiamo discusso a casa tua, ci hai mostrato tutte queste opere con proiezioni. Ma non soltanto proiezioni su schermo, anche proiezioni su corpi, proiezioni su case… potresti parlarmi della genesi di questa idea di utilizzare proiezioni in un modo differente? perché poi negli anni Novanta l’idea della proiezione è diventata un po’ come un quadro dell’arte e in un certo senso tanti artisti dopo sono diventati espressione di questo quadro… È molto interessante il tuo lavoro pioniere su questo punto…
FM: Beh, per me gli anni Sessanta hanno significato - oltre che la tensione verso la produzione artificiale, non di natura, ma del talento grafico, quasi, del mondo, in cui le merci, la moda si ri-rappresentava all’uomo, l’inizio della società dei consumi… - per me hanno rappresentato, gli anni Sessanta, l’individuazione dello schermo, lo schermo proprio come se fosse un’antica parete affrescata. Nello schermo e in un cinema si ripeteva un rito antico: la gente si radunava, invece che per assistere a una messa, per assistere a una proiezione al buio. Individualmente ognuno seguiva la trama di un altra persona, di un autore che faceva una parabola morale. Come dice Huizinga il cinema riconduce lo spettatore a una condizione elementare che ha sempre bisogno di una moralità, di una struttura morale che spieghi la vicenda, altrimenti diventa una fenomenologia incomprensibile. Lo schermo mi è sembrato questo segno che riassumesse il tempo, uno schermo in cui ero portato a scrivere “The end” non tanto come una prefigurazione della morte, ma come un elemento visivo e concettuale che già racchiudeva in sè il destino: non solo la possibilità di registrare le storie e gli eventi del mondo, ma anche la loro conclusione, appunto, come fa una pellicola cinematografica. Lo schermo fisico fatto come un quadro, quindi la scomparsa del quadro è ritenere che il fondo della rappresentazione del mondo fosse proprio lo schermo. Io in un certo senso ho anche capovolto il sistema perché poco alla volta ho sentito la necessità di proiettare dei film, dei film storici - Dreyer, piuttosto che Fritz Lang, etc. secondo delle scelte di contenuto - su degli oggetti, su delle cose, su delle persone. Ossia, con un procedimento graduale ho capito che il rapporto tra proiezione e schermo è un analogo del rapporto tra mente e mondo, proiezione e mondo: noi guardiamo il mondo sempre proiettando un nostro tracciato culturale, altrimenti non lo distingueremmo nemmeno, e in questo modo, cioè nel rimbalzo tra una soggettività totale e l’oggettività plastica delle cose del mondo e degli eventi, c’è quasi, c’è anzi, senz’altro, la nascita linguistica delle nuove simbologie. Se io proietto su una donna che corre, ciò che nasce è un terzo significato. Allora ho proiettato su tutte le cose che potevo immaginare di proiettare, anzi ho una lunga lista di proiezioni che non ho fatto, ma che vedo che i giovani pittori, attualmente, un po’ di anni dopo, stanno facendo, proiettando…
HUO: Quando erano queste proiezioni su corpi?
FM: Queste sono cominciate nel 1972 e poi le ho molto intensificate con delle mostre in cui le proiezioni erano contemporanee cioè in interno, in esterno, su una palla da biliardo, su cinquanta litri di latte, su un ventilatore in moto etc. (nel ’74 queste). Poi, le ho fatte molto in Canada, a Toronto e a Vancouver e naturalmente allora le facevo con un gran senso, sembrava una performance estremamente attraente, ma quasi non comunicante: a me sembrava di dimostrare, di fare una sorta di dimostrazione della nascita del linguaggio, ma la critica ha messo molto a capire cosa stessi facendo. Dicevano: “sì, è spettacolare”…
HUO: A un certo momento ci sono interventi anche più architettonici, no? Legati a …
FM: Alle case, alle facciate delle case, certo! Proiettare su una casa, proiettare su un monumento è proprio l’invenzione in senso letterale, cioè il rinvenimento di un nuovo significato. Questo io l’ho fatto per molti anni, è stata ripresa dalla mostra del Moca “Art and Film” ma dopo anni hanno visto le fotografie, qualche fotografia, di questi eventi e mi hanno rinvitato nella mostra.
HUO: Quale lavoro hanno mostrato?
FM: Al Moca? Ho mostrato la proiezione di Pasolini - del Vangelo sulla camicia di Pasolini - poi la proiezione su latte - su cinquanta litri di latte - la proiezione “All’ovest niente di nuovo” di Pabst sul ventilatore in moto… poi c’era la proiezione su bilancia - “Gertrud” di Dreyer proiettata su una bilancia - sul piatto di una bilancia, un po’ antica, e la bilancia segna un peso per significare proprio che il prodotto intellettuale è una cosa, è come un masso, non è una parola al vento, è la nascita di una corporeità materiale quasi. Ecco,avevo cinque proiezioni, dovevamo farne di più ma tutto questo, noi sappiamo, è sempre anche molto costoso e faticoso perché io non uso mai - finora - il video: sono sempre pellicole di cinema, di Super 8. Il rinvenimento di queste pellicole, farle durare per il tempo lungo di una mostra, è sempre qualcosa di molto laborioso: occorre una persona che le ricarichi, non c’è nulla di automatico… Finora ho usato questo aspetto artigianale con un gusto proprio dell’esperimento antico così come le avevo fatte la prima volta quando il VHS non esisteva nemmeno. Queste proiezioni le ho fatte anche su altre persone, sul regista Jancsó ho proiettato “I disperati di Sandor”, mi pare, o qualche altro film, e lui l’ha fatto molto volentieri nella grande performance-mostra che si chiamava “Oscuramento” fatta a Milano… no, fatta a Roma, nel ’75…
HUO: Visto che hai parlato dei tuoi schermi degli anni Cinquanta fino a queste proiezioni che hanno luogo nello spazio, dove c’è sempre anche l’aspetto del tempo che, in un certo senso, sembra così importante …. potresti parlare di questa condizione del tempo? E poi anche di questa tua opera “Il televisore che piange”?
FM: Si, molto volentieri. Il tempo lo scopro ora dopo molto tempo, in un’occasione curiosa: sono stato invitato a una mostra piccola, che dovrebbe partire in questi giorni, si chiama “Il luogo dei luoghi”.
Non una mostra grande, ma in un bel posto. Io non avevo tempo perché stavo preparando questa mostra a Villa Medici e dico: “non ho idea…” Ma il posto era bello perché era la Cartografia Nazionale - quindi tutte queste mappe del mondo… - ma molto piccolo, organizzato con pochi mezzi. Allora ho dato loro un orologio e dovevano scegliere: o un orologio che segna il tempo alla rovescia o un orologio che segna il tempo - un pendolo che si sente che batte i secondi - ma non ha lancetta. Nel senso che il luogo dei luoghi, per me, è il tempo. In realtà io questo lo sento fortemente, sento molto che noi siamo, d’avanguardia o no, siamo figli d’epoca, parliamo un linguaggio e manovriamo dei concetti d’epoca. È quasi impossibile pensare come penserà un uomo del Tremila, questo io lo escludo: noi dobbiamo elaborare, aprire dei varchi in un pensiero vivo ma che tende a consolidarsi ogni volta, tende ogni volta a diventare cristallino. Quindi il tempo, mi accorgo quasi da ultimo, è stata invece una costante. Io lo chiamavo con altri nomi, se vuoi, lo chiamavo attualità, epocalità e invece era proprio questo tempo, in cui sono stato sorteggiato a vivere. E difatti anche in questa mostra c’è il tempo, e secondo me il far poesia, cioè il far arte - quello che io intendo per “arte” a cui ho dedicato la mia vita - è sempre dare una risposta a questo luogo-tempo in cui uno è destinato a vivere.
Come ad esempio in una trasmissione in cui fui invitato a fare un happening, diciamo, alla televisione in bianco e nero italiana e io non feci la relazione di una performance già fatta, ma cercai di fare con il mezzo televisivo nazionale una performance. Era un momento molto pesante della vita politica italiana: anche se non c’era niente di drammatico, era politicamente molto pesante. Era il 1972, mi sembra, e allora, raccogliendo questa occasione, chiesi se potevo avere un minuto di bianco, di vuoto, dello schermo…
HUO:Per la RAI no?
FM: Si, per la RAI, la RAI nazionale, era il canale due, c’erano due soli canali, e questo era il canale due…. Sotto questo schermo, questa interruzione dell’immagine, che diventava ai miei occhi immagine stessa, io piangevo, emettevo un lamento, una lamentazione che poteva essere estesa al mondo intero, alla mia condizione esistenziale o al momento. Con un inizio classico con i titoli e il mio nome e un finale che era la comparsa di questo “The end” che già c’era nei miei quadri e che, ultimamente, grazie proprio a te, Hans, te ne sono molto grato, è stato rispolverato come un cadavere antico. Tu hai visto questa cosa nella mia monografia della mostra fatta alla galleria Nazionale d’Arte Moderna e mi hai spinto a ricercare questo nastro che è stato proiettato nella tua mostra “Archipelag TV”, spero con esito! Ho ricevuto, come sai, le cassette e l’ho trovato molto bello: era più lungo nel suo originale, perché era proprio una cosa ossessiva, la gente telefonava “C’è qualcuno che piange alla televisione!”…
HUO: Si, hanno chiamato, ci sono state delle reazioni molto interessanti, hanno chiamato centinaia di persone
FM: Ecco questa è una cosa che, vedi, fai bene a dire perché mi fa un grande piacere e poi ho trovato anche molto bello il montaggio accanto alla fotografia di Boltanski di quella ragazza ebrea, penso … la cosa mi ha commosso e ricommuoversi sulle proprie opere antiche è difficilissimo. Ti ringrazio molto.