Il Catalogo Generale di Fabio Mauri sarà prossimamente accessibile su questo sito.
Curato da Carolyn Christov-Bakargiev, esperta dell'opera dell'artista e Presidente del nostro Comitato Scientifico, il Catalogo Generale si compone delle immagini e schede di oltre 3600 opere ed è accompagnato, oltre che dal saggio introduttivo del curatore del volume, anche da nuovi saggi dei componenti del nostro Comitato Scientifico – Laura Cherubini, Francesca Alfano Miglietti e Andrea Viliani, nonché da un'intervista inedita di Hans Ulrich Obrist e da testimonianze di altri autori.
In maniera sperimentale, il Catalogo Generale apparirà prima in versione digitale e successivamente in forma cartacea per i tipi della casa editrice Hatje Cantz, Berlino, e di Società Editrice Allemandi, Torino.

Affinché si possa completare la ricerca, invitiamo tutti coloro che non l’abbiano già fatto a segnalare al più presto le loro opere all’indirizzo info@fabiomauri.com.


Fabio Mauri. Il grande anticipatore

Sebastiano Mauri con un’intervista ad Achille Mauri

Le storie sulle ultime generazioni della famiglia Mauri sono avvolte da un’aura gloriosa e tragica, alternando a ritmo serrato avventure a disavventure. Alcune di esse sono descritte da mio zio Fabio nel testo Preistoria come storia 1 . Fanno parte della mia infanzia tanto quanto della sua: rappresentano la nostra collettiva mitologia famigliare.

Come per chiunque, il contesto storico e l’ambiente famigliare di Fabio hanno giocato un ruolo importante nella formazione del suo carattere; ma dal momento che è arrivato al mondo in una famiglia particolare e in un luogo e un’epoca densi di contraddizioni, l’influenza che hanno esercitato su di lui credo sia stata più disorientante della norma.

Fabio è nato a Roma nel 1926. Per parte di madre, Bompiani, erano accademici, pittori e militari. Giorgio Bompiani, suo nonno materno, fu generale e ministro della cultura del re d’Italia. Fu lui che nel 1905 portò il Primo Reggimento dei Bersaglieri – le comparse cinematografiche non erano ancora state inventate – a partecipare al primo film girato in Italia e proiettato al pubblico: La presa di Roma, diretto da Filoteo Alberini e coprodotto dal Cavaliere Achille Mauri.

Achille Mauri, nonno paterno di Fabio, dirigeva i teatri Argentina e Apollo a Roma e Mediolanum e Trianon a Milano. Quest’ultimo fu il primo e unico teatro dedicato al Futurismo. Achille organizzò la tournée italiana di Buffalo Bill e Toro Seduto, portò a Roma il Balletto Schwarz, segnando la fine della compagnia, poiché molte delle ballerine non tornarono mai più a casa: sposarono invece intellettuali e principi romani. Quando invitò il pilota francese Léon Delagrange a mostrare al pubblico italiano, per la primissima volta, un aereo prendere il volo sui prati di Rebibbia, alla periferia nord-est di Roma, l’aereo non decollò. O meglio, lo fece solo diversi giorni dopo il previsto, quando le recinzioni di protezione erano state ormai distrutte dal pubblico che aveva chiesto indietro i propri soldi.

Achille Mauri morì a soli quarantatré anni lasciando il suo impero teatrale al giovane figlio Umberto Mauri, già sposato e già padre. Umberto continuò a collaborare con Gabriele d’Annunzio, Luigi Pirandello ed Ettore Petrolini e formò nuovi sodalizi, come quello con Joséphine Baker.

Quando il Teatro Apollo prese fuoco, Umberto perse tutto, trasferì la famiglia a Milano e fu assunto presso l’editore Arnoldo Mondadori, dove già lavorava suo cognato Valentino Bompiani. Tra l’attività teatrale e quella editoriale, casa Mauri era una locanda per artisti, dove si riunivano scrittori, attori, poeti, registi e musicisti. Era un luogo dove la diversità non solo era benvenuta, era l’essenza della vita familiare. Si passava dal Futurismo al Blues, da Guido Piovene ad Alberto Savinio, dal teatro di Pirandello agli scritti di Pier Paolo Pasolini. Fu così che i figli e le figlie di questa borghesia agiata si difesero dai disastri militari e politici che incombevano su di loro in quegli anni.

Fabio descrive questa situazione in modo molto eloquente nella sua performance Che cosa è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca (1989) in cui, sopra un tavolo usato come palcoscenico, l’intellighenzia tedesca si diletta in discussioni filosofiche, letture ermetiche e musica dodecafonica mentre gli spettatori, seduti intorno, bevono birra e mangiano bratwurst, incuranti degli oscuri presagi di guerra. Crescendo, Fabio ha sempre pensato che sarebbe diventato un artista e, visto il suo contesto famigliare, nessuno ne rimase sorpreso, e tantomeno contrariato.

A sinistra: Anna Chiari e il generale Giorgio Bompiani giocano a scacchi mentre sullo sfondo Maria Luisa Bompiani e Bice Onofri guardano la partita. A destra: Umberto Mauri e Valentino Bompiani a Roma.

Nel 1938 la famiglia Mauri si trasferì a Bologna, dove Umberto divenne amministratore delegato di Messaggerie Italiane, una società di distribuzione di libri. Fu a Bologna che Fabio conobbe Pasolini. Nel 1942, ancora adolescenti, Fabio e Pier Paolo, insieme ad altri giovani amici, fondarono la rivista letteraria “Il Setaccio”, nella quale si evidenziano i primi segni del loro antifascismo, posizione non necessariamente condivisa dal mondo borghese che li circondava. Entrambi iscritti al Liceo Galvani, avevano partecipato nel 1938 ai Ludi Juveniles di Firenze in occasione della visita di Adolf Hitler: la performance di Fabio del 1971, Che cosa è il fascismo. Festa in onore del generale Von Hussel di passaggio per Roma, si basa su questa esperienza. Quando ero bambino, Fabio mi spiegò che con questa performance voleva mostrare come il male non arriva indossando una maglietta con la scritta “Amico del Diavolo” come giusto monito. Il male è seducente, giovane e forte, persino sexy.

La passione per la modernità, la radio, il volo, la musica e il cinema non fanno parte solo dell’infanzia di Fabio, furono anche gli ingredienti che alimentarono il Futurismo. Fu a Bologna che Fabio conobbe la pittura futurista e individuò in quel movimento qualcosa di potente ed essenziale. Anche se nel dopoguerra si era spento ogni entusiasmo per quella corrente artistica troppo legata alla causa fascista, secondo gli intellettuali del Dopoguerra, nel 1980 Fabio creò Gran serata futurista 1909-1930, uno spettacolo di quattro ore che includeva pittura, poesia, letteratura, grafica, scultura e teatro: un omaggio multimediale all’avanguardia futurista, incessantemente dedita a sovvertire ogni tipo di ovvietà.

La guerra iniziò quando la famiglia Mauri era in vacanza a Rimini, sulla costa adriatica, dove decise di restare. In questa prolungata permanenza romagnola nacque il quarto fratello di Fabio, mio padre Achille. Nei primi due anni la guerra fu combattuta in terre lontane, ma poi arrivò fino a loro: furono bombardate prima Bologna, poi Rimini. Gli amici scomparvero, il freddo, la fame e il lutto divennero parte della vita quotidiana di coloro che sopravvissero. Fabio si ammalò.

Con la fine della guerra e l’arrivo in Italia delle prime immagini dei campi di concentramento, insieme alla certezza che i loro amici ebrei non sarebbero mai tornati, giorno dopo giorno, le bombe vere lasciarono il posto alle notizie-bomba su ciò che era accaduto: un orrore inimmaginabile. Le condizioni di Fabio peggiorarono. Smise di dipingere, di scrivere, di vedere i suoi amici,e alla fine anche di parlare. Considerò il suicidio, ma trovò rifugio nella religione.

Non sarebbe mai più stato lo stesso. Indagare su come tutto ciò fosse potuto accadere nell’Europa moderna, sotto gli occhi di tutti, divenne la sua missione. Si sentiva in colpa per la propria cecità e non era affatto certo che non potesse succedere ancora, in una forma o in un’altra. Niente sembrava in grado di restituire a Fabio la tranquillità.

Iniziò così un periodo di otto anni durante i quali alternava soggiorni in monasteri e in ospedali psichiatrici. In clinica, tendeva a diventare la guida spirituale degli altri pazienti, dando loro consigli e sostegno, tanto che il suo psichiatra asserì che se avesse avuto solo altri due pazienti come lui, avrebbe potuto gestire l’ospedale senza fatica. I medici riconoscevano in lui un uomo di Dio piuttosto che un malato, e lo invitavano a tornare in monastero. Dai frati, Fabio mangiava solo pane, pregava e studiava troppo, dormiva con le lenzuola bagnate per soffrire il freddo, ammalandosi di polmonite e finendo in ospedale,dove ogni volta veniva sottoposto a cure psichiatriche: subì complessivamente trentatré trattamenti di elettroshock.

Fabio odiava la guerra, le ideologie che la giustificavano e le persone che la facevano accadere. La mostra Pic-nic o il buon soldato (1998)è stata un’occasione per riflettere su questo tema. Il giovane soldato, il cui corpo offre più soluzioni che problemi, è tanto fragile quanto fiducioso nei meccanismi che lo hanno portato dove è. Il potere sfrutta i giovani. Nutre, ordina, veste e arma i giovani, e poi li manda a morire. È così che nascono i “buoni soldati”: è così che ha funzionato per migliaia di anni ed è così che funziona ancora oggi. Il potere ha il talento di semplificare radicalmente la realtà: crea una menzogna che elimina ogni complessità, lasciando dietro di sé una realtà priva di sfumature, zone grigie o paradossi. Quei paradossi, con la loro complessità meravigliosa e letale, erano tutto ciò che Fabio vedeva.

Dopo anni di malessere e cure psichiatriche, Fabio venne accolto in una realtà meno estrema, il Villaggio del Fanciullo a Civitavecchia, che ospitò più di tremila orfani di guerra. Lì trovò un po’ di equilibrio, insegnando disegno e ceramica ai giovani, ma senza produrre opere proprie: forse non poteva concedersi il piacere di creare.

Non parlò mai con gli studenti della sua angoscia e del suo senso di responsabilità per i recenti avvenimenti. Gli orfani sono vittime della casualità della guerra, perché una bomba è come una roulette russa. Ma la coscienza di Fabio andava oltre le bombe: non si concentrava sulla natura casuale della sofferenza durante la guerra, ma sulla deliberata malvagità degli esseri umani.

La vita professionale di Fabio come artista inizia nel 1954 e già dal 1959 include nelle sue composizioni ritagli di fumetti e articoli da supermercato: opere come Braccio di Ferro (1959) e Cassetto (1960) sorprendono per la precocità con cui adottano un linguaggio legato ai massmedia e al consumismo che, solo qualche anno dopo, gli artisti e il mercato d’oltreoceano rendono universalmente noto con il nome di Pop Art.

Parallelamente, nel 1957-58 Fabio realizza i suoi primi schermi, non solo ricercando lo stesso grado zero della pittura  inseguito dagli artisti alla fine degli anni cinquanta e inizio anni sessanta ma anche rendendosi conto che lo schermo stava diventando il filtro attraverso il quale percepiamo la realtà. Nell’era degli smartphone questo è un fatto ormai innegabile e la sua intuizione ha acquisito un’aura quasi profetica.

Fabio Mauri alla mostra Vitalità del negativo, Palazzo delle Esposizioni, Roma 1970.
Foto: Elisabetta Catalano

Nel 1971 affronta per la prima volta nelle sue opere gli orrori della seconda guerra mondiale e le ideologie che l’hanno resa possibile. Tutto il suo lavoro, dagli schermi alle proiezioni, dai prototipi alle performance, è una forma complessa di autobiografia: un’analisi del rapporto fra destino individuale e storia universale. Nel testo Quadreria del 1999 Fabio scrive: “Il destino dell’Europa ha segnato il mio carattere molto più dell’essere biondo, o dell’aver avuto la febbre tifoide da bambino. L’insistenza dell’arte mi permette di essere quello che non sono: studioso, guerriero, uomo, donna, cristiano, ebreo”.

Secondo Fabio l’arte non è una religione, ma decisamente le somiglia. E la religione è uno stato costante di diversità. Pensava che ciò fosse particolarmente vero nell’ebraismo. Questo stato di “accresciuta diversità”, come potremmo chiamarlo, lo ha talvolta portato a identificare l’ebreo con l’artista, a tracciare un destino parallelo per entrambi. Va ricordato che Fabio non era ebreo, ma credeva che la missione primaria dell’arte fosse quella di poter essere ciò che ancora non è, ciò che ancora non si è.

La nevrosi spinse Fabio verso un’analisi approfondita di ciò che lo circondava e una visione critica dell’idea di società. Non ha scelto la strada facile, quella della negazione, che tante volte accompagna la nostra esistenza rendendola, se meno consapevole, spesso più sopportabile. Il suo processo di guarigione è diventato una dissezione ossessiva della storia, della sua ideologia, dei suoi simboli, delle sue tecniche di narrazione. Nella performance-installazione Ebrea del 1971, Fabio immaginava che la realtà storica del nazismo non fosse giunta al termine e, soprattutto, non fosse mai stata completamente condannata: vedeva il nazismo ancora vivo e vegeto, ancora in evoluzione. Fabio crea un’installazione dove dichiara di presentare saponi derivati da tessuti adiposi ebraici, redini di cavallo ricoperte di pelle ebraica e le agghiaccianti Pelli da sci eseguite con Oswald e Mirta Rohn catturati a Davos. Brzezinka-Ospedale Maggiore, in cui l’oggetto domestico porta il nome della persona da cui è stato fabbricato.

Il monito sotteso a questi lavori è rivolto a chi crede che questo tipo di orrore faccia necessariamente parte del nostro passato, e che il progresso di cui siamo testimoni ci possa in qualche modo proteggere dalla eventualità che la storia si ripeta o faccia crescere quei semi del male che in passato sono riusciti a germinare. Oggi questa preoccupazione – o meglio, premonizione – di mio zio Fabio sembra più che mai attuale. La minaccia non appare più come una lontana nuvola scura sulla linea dell’orizzonte, come forse poteva sembrare solo dieci anni fa, ma piuttosto come una tempesta che rumoreggia minacciosa sopra le nostre teste.

Fabio Mauri durante l'installazione de Il Muro Occidentale o del Pianto, Biennale di Venezia 1993.

Segue una conversazione fra me e mio padre Achille, il più giovane dei fratelli Mauri, prima che anche lui ci lasciasse nel gennaio del 2023.


Sebastiano Mauri: Quali furono i maestri e gli amici che più influenzarono Fabio all’inizio del suo percorso artistico?


Achille Mauri: Io ho puntato su mio fratello Fabio fin da piccolo. Aveva tutto perché la sua arte fosse destinata a qualcosa di importante. Quattordicenne, dialogava con Pier Paolo Pasolini, il poeta Francesco Leonetti, Gillo Pontecorvo. Scriveva e disegnava già, come Pasolini, e presto il rivoluzionario critico d’arte Roberto Longhi diventò una figura di riferimento importante nella loro educazione. Longhi, che in quel periodo rivelò al mondo la grandezza del Caravaggio come primo vero cineasta, capace di sfidare la ferocia della società, influenzò molto Pasolini nella sua cinematografia. L’iconografia pulita e l’uso tagliente della luce che contraddistingueva Caravaggio è facilmente riscontrabile nei suoi primi film, Accattone, Mamma Roma, La ricotta. Anche Fabio fu profondamente ispirato dal pensiero di Longhi, come si può vedere dai suoi disegni dell’epoca. Ricordo che gliene rubai uno su carta da macellaio che raffigurava un operaio in bicicletta con l’aureola da santo.

Durante la guerra, la famiglia Mauri era sfollata a Rimini nella portineria di Villa Saffi. Non si potevano avere cani all’epoca: la prima cosa che facevano i militari, sia italiani che tedeschi, quando entravano per un controllo, era ammazzare i cani che incontravano. Per questo, un contadino vicino di casa ci regalò un maialino, che battezzammo Pippo. Con le cure di cinque fratelli, nostra madre e la balia, Pippo divenne grande in pochissimo tempo. Giocavamo con lui a mosca cieca, lo bendavamo e lui ci ritrovava semplicemente usando il fiuto. Se giocavamo a nascondino, invece, aveva imparato anche lui a nascondersi. Era il compagno di giochi ideale. Intelligente, affettuoso e sempre di buon umore.

Durante i festeggiamenti per la fine della guerra transitò nel nostro giardino un gruppo di uomini armati: tornavano alle proprie case a piedi per non dover riconsegnare le armi alle stazioni ferroviarie. Non appena videro Pippo, lo presero, gli tagliarono la gola e misero un catino per raccoglierne il sangue. Noi cinque fratelli eravamo seduti sul muretto di cinta del giardino, terrorizzati. Fabio fu l’unico che ebbe il coraggio di muoversi. Si avvicinò a Pippo e lo coprì con il suo camice da pittore sporco di colori a olio. Uno di loro, innervosito, tolse il camice da Pippo e lo gettò su Fabio. La nostra balia comparve impugnando un piccolo fucile giocattolo che sparava tappi legati a uno spago, era minacciosa e completamente innocua allo stesso tempo. Gli uomini scoppiarono a ridere e se ne andarono, portando Pippo con sé.

Fabio era furioso. Nostra madre cercò di calmarlo ma lui, tenendo stretta a sé la Sacra Sindone di Pippo, non dava segni di placarsi. Le gridò: «Tu non sai chi sono io!» Mia madre chiamò a raccolta i fratelli: «Venite tutti, Fabio ci vuole raccontare chi è». «Sono un artista e non posso ignorare il dolore del mondo», ci disse Fabio.

Mi convinse. Da quel momento gli rubai molti più disegni.


SM: Parte dell’eredità di vostro nonno paterno Achille, imprenditore teatrale, fu il rapporto di fiducia instauratosi con Pirandello, che servì anche a porre fine al lungo e travagliato periodo in cui Fabio alternava permanenze in monasteri a ricoveri in cliniche psichiatriche. Ci puoi raccontare come andò?


AM: Dopo anni in cui Fabio non trovava più un senso alla vita per l’impossibilità di comprendere e perdonare la ferocia degli eventi occorsi durante la guerra, nostro padre riuscì a convincerlo a portare in Argentina e in Brasile una mostra di libri curata da lui e accompagnata da una commedia di Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore. Fabio tornò dal viaggio innamorato di Adriana Asti, protagonista della commedia e presto sua sposa, placando così la febbre mistica.

Il rapporto con Pirandello era nato due generazioni prima: nostro nonno Achille era il suo produttore. Achille aveva rapporti con artisti, attori, registi e autori di tutta Italia ed era assetato di modernità e di spettacolo, in qualunque forma. Era all’avanguardia in diversi campi di quello che oggi si chiama entertainment business. A quei tempi, in cui non esisteva ancora la televisione, il cinema era agli albori e le radio scarseggiavano, il teatro e i suoi protagonisti erano la voce politica della società, ironizzavano contro il potere. Lo spettacolo teatrale era forse l’unica espressione tollerata di diffusione pubblica del dissenso, tanto che alla morte di Achille Mauri, avvenuta di notte per arresto cardiaco davanti al suo teatro Trianon a Milano, la moglie Giulia Maria Andreoli e il figlio Umberto si trovarono a fronteggiare una forte opposizione politica al loro operato.

Umberto, nostro padre, sposò, ancora giovanissimo, la sorella dell’amico Valentino Bompiani, Maria Luisa. Per il compleanno di lei organizzò una grande festa a teatro, che per l’occasione riempì di cotillon. Un incidente diede fuoco al teatro e morirono due ballerine, mettendo la famiglia Mauri in grave difficoltà.

L’eredità residua di Umberto erano i suoi rapporti con numerosi artisti e letterati, come Ettore Petrolini e Gabriele d’Annunzio, oltre che Pirandello. E da quei rapporti ripartì: seguì Pirandello nelle sue tournée teatrali, mise in scena commedie di d’Annunzio e spettacoli di Petrolini.

La vorace curiosità per i nuovi linguaggi che contraddistinse Achille ha accompagnato il figlio Umberto e il nipote Fabio, entrambi alla costante ricerca di nuove modalità espressive, letterarie, teatrali o pittoriche che fossero.


SM: Il coinvolgimento di tuo nonno Achille nel teatro, cinema, musica, sport e tecnologia lo ha reso un complice perfetto per le prime esperienze dei futuristi.


AM: Le serate futuriste del Teatro Trianon di Milano organizzate da Achille furono una novità assoluta, anticipando quelle dei teatri Argentina e Lirico di Roma. Passarono da lì Boccioni, Russolo, Sant’Elia e De Angelis, efu proprio al Trianon che esordì “Il Nuovo Teatro Futurista”.

Molti decenni dopo mio fratello Fabio, insieme ai suoi studenti dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, dove insegnò Estetica per molti anni, mise in piedi una monumentale performance antologica ricostruendo molte delle azioni e degli interventi performativi e poetici dei futuristi. Gran serata futurista rappresentò un tentativo di rilettura e rivalutazione di quel movimento attraverso una ricostruzione filologica creativa. I futuristi, allora, rappresentavano ancora un imbarazzante tabù che ricordava in parte l’ideologia fallica del regime fascista. Le loro innovazioni linguistiche, figurative e concettuali non si potevano però liquidare così facilmente, e questo trapelava chiaramente in Gran serata futurista e nella stima che Fabio riponeva in quel movimento artistico. Alla fine della performance, nella sua seconda rappresentazione al Teatro Olimpico nel 1982, ricordo di aver passato del tempo insieme a un orso molto tranquillo che si riposava nel parcheggio dopo il suo intervento a teatro.

Luciano, Silvana, Ornella, Fabio e Achille Mauri, Rimini 1940.

SM: Parlaci del viaggio negli Stati Uniti che fecero tuo padre Umberto e tuo zio Valentino Bompiani subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, in cerca di novità editoriali.


AM: Finito il periodo fascista, durante il quale non si poteva importare nulla dagli Stati Uniti, Valentino Bompiani e sua moglie Nini con Umberto e Maria Luisa Mauri partirono per New York a caccia di prodotti editoriali.

Mia madre mi raccontò che quando raggiunse mio padre nell’ufficio di Walt Disney e trovò i due di spalle, chinati su certi fogli, non seppe riconoscere suo marito: avevano la stessa corporatura, lo stesso taglio di capelli, lo stesso vestito grigio.

Incontrarono la vedova di Antoine de Saint-Exupéry, Consuelo, e ottennero da lei – primi in Europa – i diritti per pubblicare Il Piccolo Principe. Il libro fu tradotto da Nini durante il viaggio di ritorno. Letizia, sorella di Valentino, tradusse invece Mary Poppins di Pamela Lyndon Travers.

Ricordo l’estate in cui fu annunciato l’arrivo nella nostra casa di Lerici della Travers. Per quel che mi riguardava, non ero in attesa dell’autrice del libro ma di Mary Poppins in carne e ossa: non era concepibile nella mia testa di bambino che non ci fosse una totale coincidenza tra le due. Ero così emozionato del suo arrivo che continuavo a guardare il cielo in attesa della leggiadra domestica al profumo di rose che sarebbe dolcemente atterrata nel nostro giardino aggrappata al suo resistente ombrello. Quando la Travers varcò la soglia di casa, ricordo il profondo senso di delusione nel trovare una donna piccola e robusta che trascinava una pesante valigia, con i capelli arruffati e il vestito sgualcito. Fu quel giorno che imparai, a mie spese, a separare l’autore dal protagonista di un romanzo.

Mia madre Maria Luisa, invece, tradusse le carte degli “Imprevisti” e “Probabilità” del gioco del Monopoli, anch’esso parte del bottino che si riportarono indietro da quel viaggio.

Una volta tornati a Milano, Valentino Bompiani, Umberto Mauri, Arnoldo Mondadori e Mario Gasbarri, loro amico e finanziatore, giocarono una partita di Monopoli per capire quale fossero i contenuti educativi di questo gioco da tavolo che aveva spopolato in America. Litigarono molto durante la partita. Fu presto chiaro chi avrebbe vinto, grazie a un paio di colpi di fortuna iniziali, e chi, invece, avrebbe dovuto assistere per ore al triste e inesorabile spettacolo della propria umiliante sconfitta. Ne seguì un feroce dibattito in cui i tre perdenti ebbero la meglio, sostenendo che era un gioco che insegnava ad abituarsi a perdere più che a combattere per vincere; e decisero, sbagliando, di cederlo a terzi.

Da quel viaggio tornarono inoltre con autori come T.S. Eliot e John Steinbeck, che ebbero traduttori d’eccezione come Cesare Pavese, Elio Vittorini ed Eugenio Montale. Ottennero anche i diritti di pubblicazione dei fumetti di Mandrake, il mago illusionista, Flash Gordon, il primo astronauta, Dick Tracy, il poliziotto tutto d’un pezzo, Tim Tyler’s Luck, i boyscout che hanno per amica una tigre, e Lil’ Abner, dove appare per la prima volta in un fumetto una bionda sexy che ai tempi fece molto scandalo.

I prodotti di Walt Disney furono acquistati da Arnoldo Mondadori e ne fecero la fortuna economica: Topolino ebbe un successo immediato e divenne una guida etica e politica del paese. Intere generazioni, da allora, sono state educate da questo piccolo, onesto e generoso topo coi pantaloni corti. Anche Fabio ne ha presto compreso l’iconica importanza, includendolo più volte nelle sue opere.


SM: Fabio è spesso stato un precursore: penso all’uso dei prodotti da supermercato all’interno di opere visive, all’inclusione di vignette fumettistiche nei suoi dipinti, alla tela monocroma aggettante, al riscatto dell’opera degli artisti futuristi e così via.


AM: Fabio è sempre stato un grande anticipatore del futuro. I suoi schermi sono riconducibili agli smartphone che ormai ci portiamo sempre appresso. In treno mi stupisce spesso vedere come le persone siano raramente intente a guardare fuori dai finestrini, leggere un libro o parlare tra loro. Per lo più sono chine sul cellulare: la sua profezia si è avverata, la realtà è esperita attraverso gli schermi più che attraverso l’esperienza diretta. Lo stesso vale per il consumismo di massa, che ormai è diventato la fibra essenziale della nostra società, espandendosi in tutti e cinque i continenti.

Fabio ha spesso sostenuto che la bellezza veniva sfruttata dalla politica, ma se l’antisemitismo è ciò che ha segnato il tempo e il luogo di Fabio nella storia, e la maggior parte del suo lavoro, potete stare certi che opere come Ebrea mirano a destabilizzare qualsiasi tipo di discriminazione, sia essa etnica, di genere, religiosa o di orientamento sessuale.

Fabio Mauri (da dietro) durante le prove di Gran serata futurista, L'Aquila 1980.
NOTE
1.

Fabio Mauri, Preistoria come storia, in Fabio Mauri. Opere e azioni 1954-1994, catalogo della mostra (Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, Roma), a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, Marcella Cossu, Editoriale Giorgio Mondadori e Carte Segrete, Milano / Roma 1994, pp. 47-51.