«Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili.»
Italo Calvino
Attraverso le sue opere e i suoi scritti, sulla falsariga della Scuola di Francoforte, Mauri ha “raccontato” come la società occidentale, e le dottrine che si richiamano alla Ragione, abbiano fallito nel raggiungere le loro mete. L’originalità e la potenza delle sue opere sta nell’affrontare il problema secondo un metodo e un cammino contrari, scegliendo alcune costellazioni storicamente viventi della diversità e mostrando le configurazioni che esse hanno assunto, sia nell’immediatezza dei processi storici, sia nei decenni successivi. Anche in questo Mauri appartiene alla categoria dei diversi accanto alle figure del mito e a coloro i cui destini hanno portato alla luce tensioni e conflitti, articolando le differenze nella loro concretezza. Mauri è riuscito a tracciare una storia della differenza, perché ha compreso che i termini della questione (identità e differenza) andavano invertiti: è in realtà l’identità che deriva dalla differenza e non il contrario.
In Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo
Il rapporto fra realtà e rappresentazione è approfondito da Mauri nell’analisi dell’estetica di quei regimi totalitari (come falsificazione del reale), su cui ha incentrato numerose opere. La performance Che cos’è il fascismo (1971), nella quale venivano riproposti i Ludi Juveniles, i rituali dei giochi ginnici e le competizioni verbali e sportive su un grande tappeto che riproduce una svastica, è un caposaldo della sua arte.
L’opera si eclissa progressivamente. Una formazione ancora nebulosa nella forma, come nella percezione che se ne ha, sostituisce le ovvietà della visione: una formazione dispersa, densa di qualità, priva a un primo sguardo di identità e di relazioni. Alla “perdita del centro” nelle opere di Mauri si affianca la comparsa di altri tipi di centralità. Non si tratta, però, in arte, di un fenomeno recente: recente è piuttosto la consapevolezza che ne abbiamo, la “scoperta” che lentamente si è venuta imponendo ai nostri occhi. Le nuove centralità rifiutano il centro; si snodano nei segmenti di raccordo e perciò costituiscono centralità non stanziali, instabili e tendenzialmente nomadi, che si attestano, appunto, sulle distanze più che nei punti dell’insediamento durevole. Ciò è quanto produce in noi, ancora, un senso di spaesamento e, talvolta, di incredulità, e riconosciamo, in questo groviglio di sensazioni, l’arte. Gli oggetti scelti e “rimessi al mondo” da Mauri sono il contrario degli oggetti sottoposti alla logica della moda, della sovraesposizione mediatica; sono il contrario degli oggetti che hanno perduto l’aura del vissuto per allontanarsi, come diceva Guy Debord, nella pura “rappresentazione” tipica della società dello spettacolo, all’origine di un nuovo paesaggio della dispersione. L’opera d’arte offre, spesso, delle anticipazioni di ciò che i saperi disciplinari “scoprono” solo più tardi: non di rado Mauri tratta di visioni diverse dell’atopico come figura dell’assenza e dell’incognito, verso cui gli strumenti dell’osservazione e della comprensione si mostrano spesso inadeguati. Concentrare lo sguardo sugli schermi di Mauri significa mettere a fuoco anzitutto i caratteri visibili delle profonde mutazioni prodotte dalla dispersione del contemporaneo. Di qui il tentativo di operare una descrizione delle diverse forme di disagio. Descrivere, da questo punto di vista, è – nel senso indicato da Mauri – porre un “problema da risolvere”, ossia tentare un’esperienza conoscitiva che apra nuove prospettive alla visione. Ma è anche il tentativo di esaurire un tema, di descriverne le componenti e le articolazioni. La principale posta in gioco è cercare di leggere, interpretare – e talvolta decifrare – tipologie, morfologie, aggregazioni che appaiono, a un primo sguardo, prive di ogni relazione. È necessario, però, ribaltare il punto di osservazione. Occorre cioè un’inversione metodologica nella posizione del problema: queste immagini e queste “combinazioni percettive” mettono in evidenza che nelle opere di Mauri il rilievo non si limita mai alla costruzione di atlanti di morfologie e tipologie; le opere divengono “corpo conduttore”, si aprono ad altri vettori di analisi e comunicazione, e da essi si lasciano attraversare, accogliendo altre modalità di descrizione, abbracciando altri sguardi. Diventano, sempre, matrice di elenchi fluidi, ricognizioni flessibili e aperte. L’opera è lì, vicino a noi, eppure distante. Un “altro” rilievo deve aprirsi, allora, a una dimensione conoscitiva, anche sensibile, non univoca e generalizzante, ma fondata tanto sulla logica quanto sulla creatività e l’invenzione (intese come logiche con-fuse). Ed è proprio questo che s’intende per diversità aproposito di Fabio Mauri: il diverso altro non è se non colui che si pone in uno stato di isolamento.In letteratura, molti sono i casi di diversità, di estraneità, di isolamento. In Kafka, ad esempio, è la colpa che mette in movimento questo assurdo processo di segregazione volontaria, una colpa del tutto ignota, una pena da espiare, una colpa congenita. L’uomo kafkiano è ossessionato da una forza sconosciuta, una sorta di rivelazione che conduce l’essere a estraniarsi. Una condizione dell’assurdo, una salvezza che rende il soggetto ancora più vulnerabile nei confronti dei giudizi altrui. Gli elementi, i personaggi e gli oggetti scelti da Mauri sembrano agire uno spostamento, uno scarto, uno sguardo che richiama la presenza di un evento che ha incrinato il loro rapporto con il mondo e fatto perdere la capacità di identificarsi in un ruolo preciso. Una ricerca dell’identità che viene perseguita attraverso esperienze significative che tendono a creare sempre un ulteriore punto di vista. Uno schermo in cui divengono possibili le condizioni per la visione. Alla scomparsa delle teorie è seguito l’occultamento dei teorici, coloro che potevano essere in grado di cristallizzare idee e ipotesi magari pescate nel pozzo profondo dell’estetica; è infatti solo intorno alle teorie che si solidificano progetti e decisioni. Nel 1980 Philippe Sollers scriveva: “La Teoria ritornerà, come tutte le cose, se ne riscopriranno i problemi il giorno in cui l’ignoranza sarà giunta al punto che non nascerà altro che noia”
Uno degli elementi portanti della sua opera è proprio la riflessione sulle caratteristiche fondamentali del mondo contemporaneo attraverso gli aspetti storici della realtà, una realtà connotata dal venire meno della pretesa, propria dell’epoca moderna, di fondare un unico senso del mondo partendo da principi metafisici, ideologici o religiosi.
L’epoca moderna, che ha preceduto la contemporaneità, progettava di spiegare il mondo attraverso l’applicazione di principi che pretendevano di racchiudere il senso dell’intera realtà entro un principio totalitario.
Il contemporaneo è caratterizzato invece dallo sfaldamento delle certezze stabili.La fine dell’illusione di dare un senso alla realtà comporta dunque il manifestarsi della diversità dei sensi. La realtà è differenza, molteplicità, mutamento non ingabbiabile entro un unico schema. Ed è questo l’orizzonte dell’opera di Fabio Mauri, il suo essere diverso: l’intuizione che ogni tentativo di fondare stabilmente un’etica, legandola a una qualsiasi legge fondante, è destinato a fallire, poiché la diversità irriducibile impedisce di trovare realmente quel senso stabile e assoluto del “tutto” che invece ha costituito la pretesa e il progetto primo delle filosofie del passato.
In tutte le sue opere, accanto alla potenza della presenza e allo strapotere dell’assenza, Mauri sembra “proteggere” un senso di malinconia, la malinconia profonda di un artista che nell’oscurità della metafisica, ed estremizzando le ragioni dell’etica, trova il segreto vero dell’opera. L’articolato impianto estetico e teorico di tutte le esposizioni di Mauri richiama la definizione di “classico”, che nella tarda latinità designava ciò che è eccellente nella sua classe, e nel Romanticismo una forma sensibile che è stata trasfigurata per raggiungere la dimensione di uno spirito autocosciente. Il classico, dunque, come luogo in cui l’idea dell’infinito ha trovato la forma ideale. “Classico” è soprattutto ciò che conserva vivente la storia di cui parla e la figura che mette in scena: vivente, che torna a vivere di ragione e di malinconia in una nuova eternità, in un nuovo universo, in una nuova lingua. Qualsiasi discorso su Fabio Mauri conduce necessariamente a parlare delle forme del linguaggio, a narrare metalinguisticamente le peregrinazioni del concetto nella sua forma d’espressione più importante, l’opera, che diviene lo strumento di condivisione con l’altro.Mauri è autore del soggetto e regista di questo percorso; egli si concede costantemente alle insidie di un dialogo con lo spettatore, ed è proprio a partire dai suoi elementi teorici ed estetici che le modalità del suo fare arte si spostano e si dilatano di continuo.
Il legame tra Mauri e le sue opere è fatto di consapevolezza, il suo mondo è una perenne ricerca delle potenzialità del linguaggio e dell’opera. Scrive, dipinge, usa la fotografia (d’altri e non propria, come precisa), proietta film sulle cose e sugli oggetti, si occupa di ideologia, di estetica, di teologia, di scienza, include oggetti e persone anziché la loro rappresentazione… La potente poeticità di Mauri è affidata a una memoria che evidenzia controsensi, paradossi, dedali, labirinti: sono tutte strumentazioni concettuali – piuttosto che archetipi mentali – e hanno in sé qualcosa di più implacabile e impietoso di quanto non si immagini. Quelle presentate nelle opere di Mauri non sono tendenze genetiche dell’essere umano, ineluttabili congetture del tempo cosmico o della follia di un momento; sono accorgimenti di uno stratega delle parole, delle idee, delle immagini, e rapprendono significati, sensazioni, compendi di idee, fino a raggiungere il tono di epopee. L’abilità e la lucidità di Mauri stanno nella capacità di rinvenire espressioni latenti nell’evoluzione sintattica, scientifica o politica e raccordarle secondo un principio di germinazione e conservazione che trova il suo epilogo nel ricordo, nella presenza, nel rapporto con l’altro.Si serve della metafora per recuperare aristotelicamente nessi apparentemente non espliciti tra le cose. Questa figura retorica gli consente di addebitare la ripetitività degli eventi e la loro sostanziale immutevolezza al modo impiegato per rappresentarli. Se le cose si manifestano sempre in maniera diversa per l’uso che si fa di alcuni loro attributi, sono il sofisma e l’allegoria che consentono alla simultaneità di esplicitarsi in particolari stati di grazia dell’osservatore e di illuderlo sulla possibilità di un processo della storia della conoscenza. Pertanto, nelle opere di Maurila comunicabilità dell’esperienza appare illusoria: la realtà pensata o immaginata, quella comunicabile, è altro dalla realtà fenomenica, quella avvertita come prossima dai sensi.Così il linguaggio assume una consistenza più rarefatta, poiché postula la realtà come un dato mediato della coscienza, che nel momento in cui si esprime nelle forme della comunicazione perde il suo contatto precipuo con la realtà.
Completamente diverse le modalità e i temi nei disegni di Mauri. Forse la carta e il disegno furono all’origine di tutto: la base da cui partire nell’elaborazione di dipinti e sculture, installazioni e performance, ma anche una materia prima particolarmente versatile, che sulla scorta di una sua istanza progettuale (e forse anche di una sua solitudine) ha potuto trasformarsi in stampe, fotomontaggi, oggetti tridimensionali, collage, progetti e opere in carta. Mauri esprime la sua forza creativa attraverso il disegno, e in tutte le varie tecniche del disegno che usa e nelle quali la sua mano e il suo segno sono liberi e immediati. Una produzione talmente vasta e originale da sembrare infinita: Mauri disegnava continuamente e aveva raggiunto con il suo segno una tale sicurezza da riuscire, con una sola linea, a dar vita a figure compiute, come pochi altri artisti sono stati in grado di fare. Un segno essenziale, preciso, asciutto, che si curva e si modula senza nessuna esitazione. Attraverso i vari materiali che usava – grafite e matite, penna, inchiostro, pastelli, carboncino – il suo segno è la sintesi dello sdoppiamento che vive nella differenza potente tra opera e disegno: Cristo e apocalissi, scorticati e cani e cavalli e nudi e orizzonti. E anche i supporti sono tra i più diversi: libri illustrati, quaderni, lettere personali, cartoline, locandine di sue mostre, pezzi di giornale, fogli bianchi e colorati e neri… “Nessun pensatore è mai entrato nella solitudine di un altro pensatore. Così ogni pensiero parla al pensiero che lo segue o lo precede soltanto muovendo dalla sua propria solitudine, in maniera segreta. Quello che noi ci rappresentiamo come l’influsso di un pensiero non è che il fraintendimento in cui quel pensiero è inevitabilmente caduto. Soltanto questo fraintendimento, che pretende di essere il pensato, è ciò che si trova esposto nella forma del compendio e che costituisce l’occupazione di quelli che ‘non’ pensano”
Pensatore solitario e controverso, Mauri concepisce l’arte come un’impresa di demistificazione radicale e pone questioni che riguardano il ruolo dell’ontologia (teoria della sostanza), dell’epistemologia (teoria dell’idea) e dell’antropologia politica (teoria dei modi, delle passioni e delle azioni). L’oggetto della sua poetica è quello di determinare il nesso fra varie dimensioni – quali l’affermazione speculativa, l’univocità dell’Essere, la produzione del vero, la genesi del senso nella teoria dell’idea, la costruzione del turpe, l’organizzazione selettiva degli individui sugli individui, i dispositivi della conoscenza, la teoria di Dio. E in maniera indipendente l’una dall’altra, le sue riflessioni – spesso ossessioni – si affidano all’idea di espressione per definire una metodologia, conferendo all’idea dell’opera una nuova struttura che costituisce il cuore del suo pensiero e del suo stile: è questo uno dei segreti della sua diversità.
Attraverso il dramma, anche nei disegni e nelle opere su carta Mauri continua l’indagine più che umana e vertiginosa dell’ineffabile. Nei suoi disegni c’è una tensione verso la forma perfetta, il cerchio, i simboli che attingono dalla storia sacra, il sovvertimento della visione, le formule del pathos, le posture, l’iconografia degli scheletri e i loro colori fluo, il Barocco, Picasso, gli animali e i nudi e le trombe squillanti dell’Apocalisse e Cristo e l’ostia del vero amore… “Poche volte ci è capitato di aver visto il bene e il male così da vicino, senza quasi accorgercene. Una nudità bella e orribile. Il bene e il male parlano la stessa lingua”
Quello di Mauri è un universo frammentato, che nel linguaggio scova il grande inganno della Storia, che denuncia le verità della Ragione come la realtà del mondo, quando le stesse parole non esprimono nulla di più di ciò che possono, cioè concetti a sostegno delle azioni.Nella poetica di Mauri emerge una forte carica eversiva e i suoi labirinti e i suoi paradossi scovano l’inganno della razionalità, il centro intorno a cui ruotano le sue elaborazioni e il rapporto uomo/mondo come comportamento. Per lui, infatti, il termine “razionalità” ha due accezioni: da un lato è spirito critico, dall’altro è organizzazione logica del sapere. Una razionalità, dunque, che presuppone l’uso di principi o di argomenti complementari, a volte concorrenti o antagonisti.
Mauri è un artista, questo è il dato certo; tutto con lui diventa materiale artistico: la sua storia personale, l’ideologia, la politica, la filosofia, la scienza, l’estetica… Gli ambiti che avvicina, o da cui è avvicinato, divengono materiali da usare al pari del collage, della fotografia, dell’objet trouvé, della performance, delle proiezioni, del disegno, della pittura, della scultura, dell’installazione. Materiali con cui ha un rapporto fisico, uno scontro corpo a corpo capace di far nascere un incontro unico e personale. Ciò che accomuna il suo lavoro è un tono, una posizione, un contegno, alcuni segreti, un punto di osservazione. In tutte le opere di Mauri il valore risiede nell’efficacia critica nei confronti della realtà stessa e nell’opposizione esercitata di fronte al tentativo di ridurre il linguaggio all’unità mercantile dell’informazione. Attraverso la sperimentazione di rigide regole, le sue opere compongono nuove articolazioni del linguaggio. In tutto il suo lavoro si percepisce un frastagliamento originale della cultura e una separazione analitica – quasi obbligatoria – della vita; si percepiscono abissi fra i discorsi di scienza, etica e politica e le esigenze dell’essere. A partire da queste percezioni, l’artista sembra chiedersi quale sia il modo per ristabilire una unità fra tali ambiti dell’esistenza.
Sono opere che rasentano quasi il misticismo quelle di Mauri, convinto che l’arte sia un’avventura in un mondo “conosciuto”, un mondo che può essere rivelato solo da coloro che intendono assumersi il rischio. Mauri individua le persone con il loro nome e cognome, dove storia personale e storia collettiva si fondono in un flusso di particelle elementari alla ricerca di una consistenza dell’individuo.
E così ogni opera diventa una tensione prodotta da un passaggio. Il corpo, l’oggetto, la parola, gli schermi, il modo di disporre il pubblico acquistano una potenza rara: tutto sembra allontanarsi dalla materia per divenire opera. E sembra non esserci speranza nella storia, ma sembra essercene, ancora, nella dialettica o nell’arte, nell’etica e nell’estetica. Grande interprete del proprio tempo, artista irregolare se non proprio eretico, Mauri agisce un metalinguaggio a sua volta spiegabile da un altro linguaggio, che diventa dunque anch’esso metalinguaggio, e così via fino a scoprire che nessun linguaggio è stato spiegato.
Con Mauri non si esce dal discorso per adottare una posizione invulnerabile. Ogni tipo di discorso, compresi quelli di investigazione critica, sono allo stesso modo metafore, citazioni, echi e referenze, per cui lo spettatore è libero di fermarsi o di attraversare rapidamente i processi dell’opera. Il tentativo di trovare una struttura è vano, poiché ogni opera possiede una differenza.
Dunque, fin dall’inizio Mauri ci pone di fronte all’evidenza che qualsiasi opera è, al pari del pensiero, instabile, che ha bisogno di strategie, di correzioni, di regolazione, di auto-regolazione, e che la riduzione a un sistema coerente di idee della realtà è tanto impossibile quanto inutile.
Per Fabio Mauri la conoscenza non è il riflesso del mondo. Ogni conoscenza è al tempo stesso costruzione e traduzione: per lui, la conoscenza è l’opera.
Il discorso diverso di Mauri investe una società alienata che produce, attraverso la fotografia, il cinema e la televisione, immagini di sé mercificate. Ma l’opera può sfuggire alla meccanicità della percezione abituale recuperando uno sguardo ispirato a un nuovo modo, non mediato, di guardare e rapportarsi alla realtà. Quello dell’opera di Mauri è uno sguardo puntato sugli spettatori che può testimoniare il nostro essere al mondo. Una creazione dell’immagine nella quale predomina la visione, lo sguardo per riuscire ad arrivare alla realtà dell’immagine, svincolato dall’organizzazione e dall’attesa cognitiva. A volte quelle di Mauri sembrano semplici annotazioni: un insieme – più intuitivo che organizzato – di fatti sparsi che, eccezionalmente, rimandano a discipline costituite; e che, catalogate sotto la voce “varie”, formano zone particolari di cui si sa solamente che non si sa un granché, ma dove si presume che si potrebbero trovare molte cose qualora si decidesse di prestarvi un po’ di attenzione. Sono fatti banali, passati sotto silenzio, tenuti in nessun conto; eppure ci descrivono, nonostante noi crediamo di poterci dispensare dal descriverli, con molta più acutezza e attualità della maggior parte delle istituzioni e delle ideologie a cui i sociologi ricorrono abitualmente per le loro ricerche. Rinviano alla storia del nostro corpo, alla cultura che ha modellato i nostri gesti e i nostri atteggiamenti, all’educazione che ha formato i nostri atti motori non meno di quelli mentali. E così la marcia e la danza, la corsa a piedi e il salto, i modi di riposare, le tecniche di trasporto e di lancio, etc. Per Mauri ogni opera è un atto. Egli ha reso elementi centrali l’assenza, gli eventi di lenta o repentina scomparsa, i tentativi di recupero. Il primo pezzo di questo puzzle percettivo è la fascinazione ossessiva per gli oggetti: Mauri riserva un’attenzione estrema alla descrizione delle cose di uso comune, quotidiano, quanto più marginali tanto più meticolosamente presentate ed esposte. Anche qui, a dispetto dell’apparente neutralità di uno sguardo che sembra distaccato nel cogliere la superficie – in senso stretto – della realtà nei suoi aspetti minimi, non considerati quasi mai dalla Storia e solo occasionalmente dalla Letteratura, il risultato artistico è invece un contatto profondo con l’essenziale narrativo e umano, un’esperienza emozionante: le cose evocano e descrivono in profondità, con l’indispensabile strumento della memoria.La memoria, dunque, e in particolare quella che abbraccia ciò che Georges Perec chiama l’“infraordinario”: “tentare di cogliere non ciò che i discorsi ufficiali (istituzionali) chiamano l’evento, l’importante, ma ciò che è al di sotto, l’infraordinario, il rumore di fondo che costituisce ogni istante della nostra quotidianità”
“Presenza” sembra essere la parola più giusta per descrivere la sua produzione, di stile, di significato, di intenzione; se tutto il resto è assente, infatti, cosa resta delle opere di Fabio Mauri, se non la loro stessa presenza – fisica ed evidente – all’interno del mondo? Il significato, nel suo caso, non va ricercato in un’interpretazione esterna alle opere, ma più probabilmente nella loro stessa esistenza, nel loro stare al mondo. Non si tratta di immagini rappresentative di una realtà altra, ma sono esse stesse delle realtà indipendenti, la porzione di realtà che entra nell’opera e che è composta dall’opera stessa. Questi lavori parlano della realtà, non attraverso interpretazioni o sovrastrutture, schemi e modelli interpretativi che ne precludono inevitabilmente una conoscenza esatta, ma semplicemente esistendo. Per apprezzare le opere di Mauri bisogna allora rinunciare a ogni preconcetto (specialmente riguardo questioni quali figurazione e astrazione, rappresentazione e interpretazione), lasciarsi andare al gioco della scoperta, e godersi l’incontro. Per Mauri non si può ignorare il farsi avanti di un’inderogabile urgenza etica rispetto alle questioni del mondo; per lui, la perdita della parola è anche una perdita di visione. Non si tratta, certo, di politica nell’accezione comune, ma è indubbio che l’arte sia un “atto politico”, perché crea un’immagine del sé e del collettivo, e la ragione di ciò risiede nell’obiettivo stesso dell’opera d’arte, concepita quale mezzo per destare emozioni potenti e complesse.
Romantico, mitico, fratturato, proiettato, smaterializzato: un corpo, quello dell’arte, che segna l’aspirazione a una visione che vada al di là della produzione dell’oggetto artistico e si manifesti come gesto nella dimensione dell’esistenza. Il corpo dell’opera di Mauri diventa un simbolo e un processo attraverso cui le energie si scaricano in forme di comportamento istintivamente poetiche. Ogni sua opera è un “andamento”, una partitura in cui comportamento, istinto e linguaggio si unificano e la visione non è più solo un mezzo espressivo dell’arte ma un oggetto della creazione estetica. L’opera di Mauri è in sé una scrittura, un sistema di segni che traducono poeticamente la necessità della ricerca indefinita dell’Altro da sé. Il confine tra visibile e invisibile non è più una frontiera tra materia e spiritualità, ma è un gesto, una formula, un audio, una proiezione… è la visione stessa che muta. Si tratta di porre l’attenzione sui processi del divenire della sfera sensoriale, del decomporsi e ricomporsi della materia, suggerendo di scegliere il punto di vista di una materialità più intima, più profonda. L’invisibile non è soltanto nell’ordine dello spirituale. Invisibile è la trama della materia, il suo movimento.
La memoria per Mauri rappresenta un punto fermo dal quale partire, a cui ricapitolare non tanto e non solo la propria esperienza ma anche la propria conoscenza. Riemergendo dal pozzo della memoria come una folgorazione, un lampo di verità nella penombra della Storia, la memoria è per Mauri un punto di partenza gnoseologico, verità prima sul mondo e poi su di sé. È luogo primo sul quale costruire una conoscenza, ma anche una coscienza che sappia riconoscere principi di discernimento.
Il ricordo, per Mauri, “trema”.
Gilles Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 133-134.
Emmanuel Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodilibet, Macerata 2012, p. 96.
Karl Löwith, Significato e fine della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1963, cit. in
Norberto Bobbio, Dialogo sul male assoluto, MicroMega 2/2010, p. 83.
F. Mauri, Che cosa è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo, in Scritti in mostra. L'avanguardia come zona 1958-2008, a cura di Francesca Alfano Miglietti, il Saggiatore, Milano 2008, p. 75.
Philippe Sollers, Théorie d’ensemble, Seuil, Paris 1968, p. 107.
Martin Heidegger, Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1996, p. 37.
Fabio Mauri, Scritti in Mostra, a cura di Francesca Alfano Miglietti, il Saggiatore, Milano 2008, p. 75.
Georges Perec, L’infra-ordinario, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 72.