Il Catalogo Generale di Fabio Mauri sarà prossimamente accessibile su questo sito.
Curato da Carolyn Christov-Bakargiev, esperta dell'opera dell'artista e Presidente del nostro Comitato Scientifico, il Catalogo Generale si compone delle immagini e schede di oltre 3600 opere ed è accompagnato, oltre che dal saggio introduttivo del curatore del volume, anche da nuovi saggi dei componenti del nostro Comitato Scientifico – Laura Cherubini, Francesca Alfano Miglietti e Andrea Viliani, nonché da un'intervista inedita di Hans Ulrich Obrist e da testimonianze di altri autori.
In maniera sperimentale, il Catalogo Generale apparirà prima in versione digitale e successivamente in forma cartacea per i tipi della casa editrice Hatje Cantz, Berlino, e di Società Editrice Allemandi, Torino.

Affinché si possa completare la ricerca, invitiamo tutti coloro che non l’abbiano già fatto a segnalare al più presto le loro opere all’indirizzo info@fabiomauri.com.


Fabio Mauri: i diversi

Francesca Alfano Miglietti

«Chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili
Italo Calvino



La possibilità di ricreare il mondo, una sfida continua a proporre pensieri, opere, incontri, discorsi, il coraggio di trattenere la notte. L’arte contemporanea non può vivere in pace con lo spirito del nostro tempo, forse in tutti i tempi è stato così: la conoscenza è l’organizzazione del passato, e all’arte è il tempo totale che interessa, non le sue scansioni lineari. Un tempo totale che attraversa in tutti i sensi passato, presente e futuro in un ordine alterato e bizzarro. La grande arte ha insegnato a dire, a guardare, a non avere paura delle apparenze, dei simboli, delle strategie. L’arte non è l’oasi della mente dove il pensiero riposa.

Tutto il lavoro di Fabio Mauri agisce una dimensione “diversa”, agisce la doppia dimensione di Storia e linguaggio, agisce tensioni ideologiche, spirituali, poetiche, sceglie la complessità e il paradosso come modo.

La storia che raccontano le opere di Mauri include la sfida oscura dei motivi dittatoriali nel gioco sempre inquietante della rappresentazione, una dimensione in cui i simboli vengono assunti per la loro natura prima di segni linguistici, senza perdere nulla del loro potere evocativo.

È difficile e pericoloso il sovraccarico della Storia moderna, e le opere di Mauri, che tra l’altro indagano l’estetica nell’ideologia nazista e fascista, infrangono le regole del rimosso, conservano memoria dei risultati e dei metodi: tutte scelte distanti dall’odierna apologia dell’informazione. Mauri pone l’accento sui valori, sulle domande che insistentemente vengono messe da parte in un universo culturale in cui, nonostante grandi dichiarazioni di apertura, già le domande sono considerate pericolose.

La Storia inizia allorché gli individui cominciano a concepire il passare del tempo non più in termini di processo naturale (i cicli stagionali, la durata della vita individuale…) ma riferendosi a una serie di eventi specifici in cui le persone si trovano consapevolmente implicate e su cui sono consapevolmente in grado di influire. La Storia, ha scritto Jacob Burckhardt, è “provocata dal risveglio della consapevolezza”, e la trasformazione del mondo moderno è rappresentata dallo sviluppo dell’autocoscienza. Mauri sceglie di “avvicinare” una dimensione della Storia legata a una delle fasi che più di altre hanno determinato profonde e irreversibili trasformazioni nell’umano; nel corso degli anni, il suo è divenuto un attacco regolare alla volgarità culturale proposta in molteplici dibattiti assolutamente superficiali, comodi, conformisti. Forse ancora non ci accorgiamo di quanto il passato fascista abbia condizionato il lungo dopoguerra italiano, generando una tacita e continua tensione, ma producendo solo occasionalmente effettive assunzioni di responsabilità. Con Mauri si evidenzia come la fine del secolo scorso si distingua per la mancata riflessione sul passato, un passato sospeso, spesso rinnegato: forse “i conti” sono stati fatti, sì, ma solo in parte e, forse, troppo tardi.

Attraverso le sue opere e i suoi scritti, sulla falsariga della Scuola di Francoforte, Mauri ha “raccontato” come la società occidentale, e le dottrine che si richiamano alla Ragione, abbiano fallito nel raggiungere le loro mete. L’originalità e la potenza delle sue opere sta nell’affrontare il problema secondo un metodo e un cammino contrari, scegliendo alcune costellazioni storicamente viventi della diversità e mostrando le configurazioni che esse hanno assunto, sia nell’immediatezza dei processi storici, sia nei decenni successivi. Anche in questo Mauri appartiene alla categoria dei diversi accanto alle figure del mito e a coloro i cui destini hanno portato alla luce tensioni e conflitti, articolando le differenze nella loro concretezza. Mauri è riuscito a tracciare una storia della differenza, perché ha compreso che i termini della questione (identità e differenza) andavano invertiti: è in realtà l’identità che deriva dalla differenza e non il contrario.

Fabio Mauri,  Muro d'Europa, 1979

Ci sono, a mio parere, due aspetti nella Storia, l’epico e il domestico, e Mauri li combina insieme, come i riferimenti alla “inalterata” vita borghese, le gite al mare e le grandi esposizioni artistiche, gli arredamenti e gli oggetti del quotidiano. Mauri sa che nella nostra cultura i numeri di cui abbiamo più bisogno, i numeri che ricordiamo, non sono quelli dei grandi eventi storici; per noi i numeri sono codici, non date. La dimensione storica in Mauri è presente, ma in modo da rendere gli stessi valori storici più problematici, o addirittura nulli: i conflitti implicati nella cultura europea sono stati sostituiti dall’universo della comunicazione, e in questo contesto è sbocciato il postmodernismo, in cui i codici e le iscrizioni, le date e gli eventi si trasformano in decorazioni, e l’orizzonte teorico di Mauri fa attenzione all’evento e alle sue relazioni con l’etica. Per Gilles Deleuze l’Etica comprende i valori immanenti dell’individuo fondati sul Buono e sul Cattivo, piuttosto che quelli trascendenti basati sul Bene e sul Male, propri della Morale. Attraverso questa distinzione, Deleuze traccia la differenza fra Etica e Morale: “O la morale non ha alcun senso o è appunto questo che essa vuol dire, non ha nient’altro da dire: non essere indegni di ciò che accade. Al contrario, cogliere ciò che accade come ingiusto e non meritato (è sempre la colpa di qualcuno), ecco ciò che rende ripugnanti le nostre piaghe, il risentimento personificato, il risentimento contro l’evento. Non vi sono altre volontà cattive. Ciò che è veramente immorale è qualunque utilizzazione delle nozioni morali, giusto, ingiusto, merito, colpa. Cosa vuol dire allora voler l’evento? Vuol dire forse accettare la guerra quando capita, la ferita e la morte quando capitano? È molto probabile che la rassegnazione sia ancora una figura del risentimento, che, in verità, possiede tante figure. Se volere l’evento è innanzitutto liberarne l’eterna verità come il fuoco che lo alimenta, tale volere raggiunge il punto in cui la guerra è condotta contro la guerra, la ferita, tracciata vivente, come la cicatrice di tutte le ferite, la morte rovesciata voluta contro tutte le morti. Intuizione volitiva e trasmutazione. […] Nulla muta in una certa maniera salvo un cambiamento di volontà, una sorta di salto sul posto di tutto il corpo che baratta la sua volontà organica contro una volontà spirituale, che vuole ora non esattamente ciò che accade, ma qualche cosa ‘in’ ciò che accade, qualche cosa futura conforme a ciò che accade, secondo le leggi di un’oscura conformità umoristica: l’Evento. In questo senso l’‘Amor fati’ fa tutt’uno con la lotta degli uomini liberi. Che vi sia in ogni evento la mia infelicità, ma anche uno splendore e un bagliore che asciuga l’infelicità e fa sì che l’evento, voluto, si effettui sulla sua punta più stretta, sulla lama di un’operazione, tale è l’effetto della genesi statica o dell’immacolata concezione. Il bagliore, lo splendore dell’evento è il senso. L’evento non è ciò che accade (accadimento), è in ciò che accade, il puro espresso che ci fa segno e che ci aspetta” 1 .

Per Mauri il termine “evento” è usato in senso filosofico, religioso, storico, e più in generale come caratteristica del privato. Un evento è un nesso di occasioni reali in relazione reciproca in un modo determinato; per esempio, una molecola è una sequenza storica di occasioni reali, e tale sequenza è un evento. Ora, i movimenti della molecola non sono altro che le differenze fra le successive occasioni della storia della sua vita, e i cambiamenti nella molecola sono le differenze consequenziali delle occasioni reali. L’esplicita compromissione di Mauri e delle sue ricerche con il contesto ideologico, culturale, sociale e politico del mondo che lo ha circondato caratterizza profondamente alcuni anni del suo percorso artistico. Con lui, opere e azioni escono dai tradizionali confini dell’arte proprio per avvicinarsi al mondo della vita reale, in molti casi affrontando esplicitamente le questioni via via più rilevanti, dalla lotta politica al dibattito su temi civili e sociali e questioni etiche. E a partire dalle tensioni degli anni settanta, in Mauri emerge la ricerca di un’ideologia inconscia che rivela un intento segreto: la rimozione. È il rimosso il vero nucleo della vicenda storica, e Mauri annulla la distanza e tesse il filo temporale che ha dato origine e ha modificato la cultura europea. Storia e natura, una storia che partendo da una grande capacità di trasformazione può condurre nelle sfere del terrore, una trasposizione di tempi e di spazi, come un’astronave smarrita che ha lasciato il suo carico in un altro tempo, in un’altra dimensione.

Un rovesciamento di orizzonti: l’uso della parola nel suo lavoro è importantissimo. Dalle opere a parete ai manifesti, dalle strisce sul pavimento agli Zerbini, ha lavorato non solo sulla spazializzazione non sintagmatico dei suoi testi ma anche sulla loro presentazione tipografica. I testi di Mauri esaminano visivamente una problematica epistemologica, e così tutto il suo lavoro risulta essere una forte dichiarazione del dramma e degli incubi dei tempi moderni del XX secolo, insistendo su un carattere dell’immaginario che vorrebbe porre attenzione alla fabbrica storica della nostra cultura. Il termine ideologia indica la“scienza delle idee”riguardante la loro origine, la formazione, i modi dell’associarsi, ma nel significato moderno più corrente è il sistema dei principi e degli orientamenti generali, dottrinali e programmatici che ispira un movimento politico, e di cui tale movimento si vale per fondare la propria opera di persuasione e propaganda. In un significato più ampio, ideologia sta a significare quel generale modo di pensare e quelle dottrine che corrispondono a un’epoca determinata, ed esprime la posizione, gli interessi e le aspirazioni di una data classe in un dato momento storico. Ideologia quindi come idea e conoscenza. Per Mauri questa consapevolezza diventa punto di avvio di un’operazione che, partendo dall’uso del linguaggio dell’ideologia, tende a un ribaltamento di tale specificità nella direzione di una strategia di trasformazione tramite l’assunzione di modelli culturali alternativi, sino a travolgere gli schemi operativi. L’ideologia, intesa nelle poetiche di Mauri come falsa coscienza, diventa supporto per l’elaborazione di un rapporto possibile fra l’intellettuale e il contesto sociale basato su una diversificazione del ruolo, e quindi della funzione dell’intellettuale stesso. Questo ribaltamento richiede modelli poetici che contrastino la continua opera di distruzione della consapevolezza del giudizio che passa attraverso i canali di comunicazione. Per Mauri i significati del fare arte passano attraverso la differenza tra il “vedere” e il “far vedere”, che sono infatti elementi costanti della sua riflessione, nel bisogno di un’immagine fruibile in tutte le sue parti dallo spettatore: la possibilità, cioè, di muovere gli occhi come di fronte a uno schermo e il bisogno correlato di un’immagine che si formi liberamente anche nella mente dello spettatore, messo in grado di svolgere le attività di immaginazione o di ricordo o, comunque, di partecipazione emotiva.Lo sguardo che richiedono gli schermi di Fabio Mauri è uno sguardo come inevitabile controfaccia della pietas, ci chiedono di identificarci e, nel contempo, di mantenere forte la distanza. Si compone, davanti ai nostri occhi, qualche pezzo del puzzle di un’altra vita e di un altro tempo, ed è forte il disagio di una presenza fuori luogo.

In Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo 2 , il filosofo francese Emmanuel Lévinas definisce il nazismo come un “risveglio di sentimenti elementari”: se la storia dell’Europa è un’eterna lotta dell’anima contro il potere corporale, sostiene l’autore, allora il nazismo è la vittoria definitiva di tale potere, un continuo “ricondurre l’uomo alla sua condizione originaria”. Se per Lévinas il nazismo sarebbe una “rivolta contro la civiltà occidentale”, Karl Lowith 3  lo considera una “malattia morale”, frutto di una visione nichilistica della vita che ha coinvolto la società borghese, distruggendo l’idea stessa di umanità. L’opera di Fabio Mauri è profondamente orientata a un’indagine di come questa ideologia si è effettivamente manifestata nella Storia e nelle successive ripercussioni in campo politico e artistico. L’opera, dunque, come un progetto di interrogazione che, riproponendo e utilizzando l’estetica e la propaganda fascista, nazista, razzista e antisemita, sembra voler ogni volta rievocare i frammenti di ciò che è stato, facendoli rivivere di fronte alle vicende del contemporaneo. Tutta la sua produzione artistica insiste sugli stessi temi, e la sua intensa analisi critica si focalizza sui meccanismi di creazione dei linguaggi visivi che decretarono tra la prima e la seconda guerra mondiale l’ascesa di quei regimi, e il peso conseguente che l’Olocausto ha impresso nella formazione del mondo contemporaneo, oltre che sulla sua stessa vicenda personale.L’estetica dei regimi totalitari e gli strumenti di manipolazione di massa, che proprio partendo da premesse artistiche ed estetiche pronunciarono il loro orrendo messaggio, sono stati ripetutamente oggetto di studio da parte di Mauri, come nel caso della mostra sull’“arte degenerata” voluta da Joseph Goebbels nel 1937-1938. Più che di attualità, è oggi di estrema necessità l’analisi che Mauri ha condotto sull’ideologia, l’Europa e la Germania. Si chiedeva l’artista: “Che cos’è la Germania? E l’Europa? Che significa essere Europa? Non è stata Europa la Germania del 1930 e del 1940? Io credo lo sia stata. Credo che la natura (la cultura della natura) della Germania riguardi strettamente l’identità europea” 4 .

Il rapporto fra realtà e rappresentazione è approfondito da Mauri nell’analisi dell’estetica di quei regimi totalitari (come falsificazione del reale), su cui ha incentrato numerose opere. La performance Che cos’è il fascismo (1971), nella quale venivano riproposti i Ludi Juveniles, i rituali dei giochi ginnici e le competizioni verbali e sportive su un grande tappeto che riproduce una svastica, è un caposaldo della sua arte.

Fabio Mauri, Che cosa è il fascismo, 1971.
Foto: Marcella Galassi

L’opera si eclissa progressivamente. Una formazione ancora nebulosa nella forma, come nella percezione che se ne ha, sostituisce le ovvietà della visione: una formazione dispersa, densa di qualità, priva a un primo sguardo di identità e di relazioni. Alla “perdita del centro” nelle opere di Mauri si affianca la comparsa di altri tipi di centralità. Non si tratta, però, in arte, di un fenomeno recente: recente è piuttosto la consapevolezza che ne abbiamo, la “scoperta” che lentamente si è venuta imponendo ai nostri occhi. Le nuove centralità rifiutano il centro; si snodano nei segmenti di raccordo e perciò costituiscono centralità non stanziali, instabili e tendenzialmente nomadi, che si attestano, appunto, sulle distanze più che nei punti dell’insediamento durevole. Ciò è quanto produce in noi, ancora, un senso di spaesamento e, talvolta, di incredulità, e riconosciamo, in questo groviglio di sensazioni, l’arte. Gli oggetti scelti e “rimessi al mondo” da Mauri sono il contrario degli oggetti sottoposti alla logica della moda, della sovraesposizione mediatica; sono il contrario degli oggetti che hanno perduto l’aura del vissuto per allontanarsi, come diceva Guy Debord, nella pura “rappresentazione” tipica della società dello spettacolo, all’origine di un nuovo paesaggio della dispersione. L’opera d’arte offre, spesso, delle anticipazioni di ciò che i saperi disciplinari “scoprono” solo più tardi: non di rado Mauri tratta di visioni diverse dell’atopico come figura dell’assenza e dell’incognito, verso cui gli strumenti dell’osservazione e della comprensione si mostrano spesso inadeguati. Concentrare lo sguardo sugli schermi di Mauri significa mettere a fuoco anzitutto i caratteri visibili delle profonde mutazioni prodotte dalla dispersione del contemporaneo. Di qui il tentativo di operare una descrizione delle diverse forme di disagio. Descrivere, da questo punto di vista, è – nel senso indicato da Mauri – porre un “problema da risolvere”, ossia tentare un’esperienza conoscitiva che apra nuove prospettive alla visione. Ma è anche il tentativo di esaurire un tema, di descriverne le componenti e le articolazioni. La principale posta in gioco è cercare di leggere, interpretare – e talvolta decifrare – tipologie, morfologie, aggregazioni che appaiono, a un primo sguardo, prive di ogni relazione. È necessario, però, ribaltare il punto di osservazione. Occorre cioè un’inversione metodologica nella posizione del problema: queste immagini e queste “combinazioni percettive” mettono in evidenza che nelle opere di Mauri il rilievo non si limita mai alla costruzione di atlanti di morfologie e tipologie; le opere divengono “corpo conduttore”, si aprono ad altri vettori di analisi e comunicazione, e da essi si lasciano attraversare, accogliendo altre modalità di descrizione, abbracciando altri sguardi. Diventano, sempre, matrice di elenchi fluidi, ricognizioni flessibili e aperte. L’opera è lì, vicino a noi, eppure distante. Un “altro” rilievo deve aprirsi, allora, a una dimensione conoscitiva, anche sensibile, non univoca e generalizzante, ma fondata tanto sulla logica quanto sulla creatività e l’invenzione (intese come logiche con-fuse). Ed è proprio questo che s’intende per diversità aproposito di Fabio Mauri: il diverso altro non è se non colui che si pone in uno stato di isolamento.In letteratura, molti sono i casi di diversità, di estraneità, di isolamento. In Kafka, ad esempio, è la colpa che mette in movimento questo assurdo processo di segregazione volontaria, una colpa del tutto ignota, una pena da espiare, una colpa congenita. L’uomo kafkiano è ossessionato da una forza sconosciuta, una sorta di rivelazione che conduce l’essere a estraniarsi. Una condizione dell’assurdo, una salvezza che rende il soggetto ancora più vulnerabile nei confronti dei giudizi altrui. Gli elementi, i personaggi e gli oggetti scelti da Mauri sembrano agire uno spostamento, uno scarto, uno sguardo che richiama la presenza di un evento che ha incrinato il loro rapporto con il mondo e fatto perdere la capacità di identificarsi in un ruolo preciso. Una ricerca dell’identità che viene perseguita attraverso esperienze significative che tendono a creare sempre un ulteriore punto di vista. Uno schermo in cui divengono possibili le condizioni per la visione. Alla scomparsa delle teorie è seguito l’occultamento dei teorici, coloro che potevano essere in grado di cristallizzare idee e ipotesi magari pescate nel pozzo profondo dell’estetica; è infatti solo intorno alle teorie che si solidificano progetti e decisioni. Nel 1980 Philippe Sollers scriveva: “La Teoria ritornerà, come tutte le cose, se ne riscopriranno i problemi il giorno in cui l’ignoranza sarà giunta al punto che non nascerà altro che noia” 5 . Per definizione, le teorie nascono come atto di opposizione, e come atto di opposizione si pone la realtà smarrita e moltiplicata di Mauri, un procedimento che come un gigantesco atlante mentale produce visioni e teorie e ingloba dati, pensieri, intuizioni, grandi narrazioni, disegni, appunti, frammenti, opere, performance, informazioni e deformazioni che si dispongono sui fogli e nello spazio come segreti, si oppongono al primato dell’unità e dell’identità, scelgono l’instabilità e le insidie del molteplice, del diverso, del divenire. La via indicata da Mauri sembra quella di un’opera fatta di corpi, idee e posizioni che antepongano la trasparenza dell’immagine alle mistificazioni della parola, e che, preferendo l’evidenza della rappresentazione alla falsità della messa in scena, si fanno tramite di uno sguardo preciso e oggettivo. Il problema entro cui sembra continuare a muoversi l’opera di Fabio Mauri è la possibilità di assumere l’atteggiamento di chi sceglie uno sguardo fenomenologico che lascia intatta la continuità spazio-temporale del reale e, contemporaneamente, costruisce le coordinate fascinose di una narrazione dinamica ed ellittica che seziona, manipola, perfeziona la realtà stessa. Mauri sembra diventare sempre più consapevole del fatto che neanche nella vita quotidiana il contemporaneo riesce più a rappresentare la realtà, e al posto dell’assoluta “pienezza” della rappresentazione propone il vuoto. Nelle sue opere si avverte una dolorosa presa di coscienza: la perdita di sacralità dell’immagine, la sfiducia nella sua capacità comunicativa. Mauri giunge a sottolineare il pericolo di un incontrollato proliferare delle immagini nella nostra civiltà, il rischio che la smania di riprodurre la realtà si traduca nell’incapacità di vederla, e dunque la necessità di imporre dei limiti morali alla riproduzione visiva. Da qui gli Schermi. Tutta la sua opera si colloca esattamente nel punto critico del mutamento, nella fase intermedia di turbolenza verso una nuova visione della realtà, nella ricerca di un nuovo equilibrio dopo che si sono perse le precedenti certezze. Il tema della crisi, della difficile transizione verso un nuovo equilibrio, si presenta con regolarità in ogni sua opera. Mauri sembra voler sottolineare la crisi che può nascere dal conflitto tra il modello mentale e la realtà osservata; crisi che è accompagnata da difficoltà visive e psicologiche e che può essere risolta solo con l’aggiornamento del modello mentale. A questo punto scatta la complicità: il rapporto più generale tra realtà e immagine, articolandosi sulle dicotomie movimento/fissità, autenticità/finzione, vita/opera, pubblico/privato. Mauri presta la sua attenzione al meccanismo dello sguardo, ai problemi della visione e della percezione del mondo.

Uno degli elementi portanti della sua opera è proprio la riflessione sulle caratteristiche fondamentali del mondo contemporaneo attraverso gli aspetti storici della realtà, una realtà connotata dal venire meno della pretesa, propria dell’epoca moderna, di fondare un unico senso del mondo partendo da principi metafisici, ideologici o religiosi.

L’epoca moderna, che ha preceduto la contemporaneità, progettava di spiegare il mondo attraverso l’applicazione di principi che pretendevano di racchiudere il senso dell’intera realtà entro un principio totalitario.

Il contemporaneo è caratterizzato invece dallo sfaldamento delle certezze stabili.La fine dell’illusione di dare un senso alla realtà comporta dunque il manifestarsi della diversità dei sensi. La realtà è differenza, molteplicità, mutamento non ingabbiabile entro un unico schema. Ed è questo l’orizzonte dell’opera di Fabio Mauri, il suo essere diverso: l’intuizione che ogni tentativo di fondare stabilmente un’etica, legandola a una qualsiasi legge fondante, è destinato a fallire, poiché la diversità irriducibile impedisce di trovare realmente quel senso stabile e assoluto del “tutto” che invece ha costituito la pretesa e il progetto primo delle filosofie del passato.

Fabio Mauri,  Che cosa è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo, 1989.
Foto: Claudio Abate

In tutte le sue opere, accanto alla potenza della presenza e allo strapotere dell’assenza, Mauri sembra “proteggere” un senso di malinconia, la malinconia profonda di un artista che nell’oscurità della metafisica, ed estremizzando le ragioni dell’etica, trova il segreto vero dell’opera. L’articolato impianto estetico e teorico di tutte le esposizioni di Mauri richiama la definizione di “classico”, che nella tarda latinità designava ciò che è eccellente nella sua classe, e nel Romanticismo una forma sensibile che è stata trasfigurata per raggiungere la dimensione di uno spirito autocosciente. Il classico, dunque, come luogo in cui l’idea dell’infinito ha trovato la forma ideale. “Classico” è soprattutto ciò che conserva vivente la storia di cui parla e la figura che mette in scena: vivente, che torna a vivere di ragione e di malinconia in una nuova eternità, in un nuovo universo, in una nuova lingua. Qualsiasi discorso su Fabio Mauri conduce necessariamente a parlare delle forme del linguaggio, a narrare metalinguisticamente le peregrinazioni del concetto nella sua forma d’espressione più importante, l’opera, che diviene lo strumento di condivisione con l’altro.Mauri è autore del soggetto e regista di questo percorso; egli si concede costantemente alle insidie di un dialogo con lo spettatore, ed è proprio a partire dai suoi elementi teorici ed estetici che le modalità del suo fare arte si spostano e si dilatano di continuo.

Il legame tra Mauri e le sue opere è fatto di consapevolezza, il suo mondo è una perenne ricerca delle potenzialità del linguaggio e dell’opera. Scrive, dipinge, usa la fotografia (d’altri e non propria, come precisa), proietta film sulle cose e sugli oggetti, si occupa di ideologia, di estetica, di teologia, di scienza, include oggetti e persone anziché la loro rappresentazione… La potente poeticità di Mauri è affidata a una memoria che evidenzia controsensi, paradossi, dedali, labirinti: sono tutte strumentazioni concettuali – piuttosto che archetipi mentali – e hanno in sé qualcosa di più implacabile e impietoso di quanto non si immagini. Quelle presentate nelle opere di Mauri non sono tendenze genetiche dell’essere umano, ineluttabili congetture del tempo cosmico o della follia di un momento; sono accorgimenti di uno stratega delle parole, delle idee, delle immagini, e rapprendono significati, sensazioni, compendi di idee, fino a raggiungere il tono di epopee. L’abilità e la lucidità di Mauri stanno nella capacità di rinvenire espressioni latenti nell’evoluzione sintattica, scientifica o politica e raccordarle secondo un principio di germinazione e conservazione che trova il suo epilogo nel ricordo, nella presenza, nel rapporto con l’altro.Si serve della metafora per recuperare aristotelicamente nessi apparentemente non espliciti tra le cose. Questa figura retorica gli consente di addebitare la ripetitività degli eventi e la loro sostanziale immutevolezza al modo impiegato per rappresentarli. Se le cose si manifestano sempre in maniera diversa per l’uso che si fa di alcuni loro attributi, sono il sofisma e l’allegoria che consentono alla simultaneità di esplicitarsi in particolari stati di grazia dell’osservatore e di illuderlo sulla possibilità di un processo della storia della conoscenza. Pertanto, nelle opere di Maurila comunicabilità dell’esperienza appare illusoria: la realtà pensata o immaginata, quella comunicabile, è altro dalla realtà fenomenica, quella avvertita come prossima dai sensi.Così il linguaggio assume una consistenza più rarefatta, poiché postula la realtà come un dato mediato della coscienza, che nel momento in cui si esprime nelle forme della comunicazione perde il suo contatto precipuo con la realtà.

Completamente diverse le modalità e i temi nei disegni di Mauri. Forse la carta e il disegno furono all’origine di tutto: la base da cui partire nell’elaborazione di dipinti e sculture, installazioni e performance, ma anche una materia prima particolarmente versatile, che sulla scorta di una sua istanza progettuale (e forse anche di una sua solitudine) ha potuto trasformarsi in stampe, fotomontaggi, oggetti tridimensionali, collage, progetti e opere in carta. Mauri esprime la sua forza creativa attraverso il disegno, e in tutte le varie tecniche del disegno che usa e nelle quali la sua mano e il suo segno sono liberi e immediati. Una produzione talmente vasta e originale da sembrare infinita: Mauri disegnava continuamente e aveva raggiunto con il suo segno una tale sicurezza da riuscire, con una sola linea, a dar vita a figure compiute, come pochi altri artisti sono stati in grado di fare. Un segno essenziale, preciso, asciutto, che si curva e si modula senza nessuna esitazione. Attraverso i vari materiali che usava – grafite e matite, penna, inchiostro, pastelli, carboncino – il suo segno è la sintesi dello sdoppiamento che vive nella differenza potente tra opera e disegno: Cristo e apocalissi, scorticati e cani e cavalli e nudi e orizzonti. E anche i supporti sono tra i più diversi: libri illustrati, quaderni, lettere personali, cartoline, locandine di sue mostre, pezzi di giornale, fogli bianchi e colorati e neri… “Nessun pensatore è mai entrato nella solitudine di un altro pensatore. Così ogni pensiero parla al pensiero che lo segue o lo precede soltanto muovendo dalla sua propria solitudine, in maniera segreta. Quello che noi ci rappresentiamo come l’influsso di un pensiero non è che il fraintendimento in cui quel pensiero è inevitabilmente caduto. Soltanto questo fraintendimento, che pretende di essere il pensato, è ciò che si trova esposto nella forma del compendio e che costituisce l’occupazione di quelli che ‘non’ pensano” 6 . I disegni di Fabio Mauri sembrano nati da una profonda solitudine, come fossero i disegni stessi il luogo di incontro con altri artisti… Nei disegni Mauri incontra Duchamp e Picasso, e animali e piante e volti e apocalissi e aerei e scorci di lontananza… I suoi disegni hanno una natura aliena. Le sue opere su carta sono flussi di desideri e ossessioni situati al di qua della distinzione tra soggetto e oggetto, tra il sé e il mondo, tra le regole del diurno e il disordine del notturno. Mauri è un “amante della conoscenza” e sceglie sempre la dispersione di un pensiero originario che crea il tentativo di un ri-pensare, un metodo forse ancora più fecondo del pensiero originario, un “collage” collocato su un piano di consequenzialità. Mauri sa che la contemporaneità è reduce da una dispersione, dalla frammentarietà del soggetto occidentale che si disgrega dinanzi ai problemi posti dalle ideologie e dalla Storia, e di ciò che appare come una lenta evanescenza a indicare una frattura del pensiero. Sperimenta un’ampia varietà di tecniche, accostando matite, gessetti, carboncino, acquerelli, inchiostri a penna o fatti colare da cannucce, alternando i supporti e sovrapponendo materiali diversi, creando un vocabolario grafico pieno di inventiva, audace nella sintassi, finissimo nel variare lo stile in base al soggetto, allo stato d’animo, all’atmosfera desiderata. Pur essendo spesso legati alle sue opere (molti sono gli studi propedeutici), i lavori su carta sono concepiti nel segno di una spiccata autonomia. Che si tratti di volti, oggetti o paesaggi, nei disegni l’artista asseconda le forme e scolpisce i volumi, conferendo alle figure una definizione precisa e ossessiva. Il modo di disegnare, spontaneo ed esagerato, l’uso soggettivo della linea come del colore permetteranno a Mauri di trasferire sulla carta un sentire personale che viene autocensurato nelle opere installative.

Pensatore solitario e controverso, Mauri concepisce l’arte come un’impresa di demistificazione radicale e pone questioni che riguardano il ruolo dell’ontologia (teoria della sostanza), dell’epistemologia (teoria dell’idea) e dell’antropologia politica (teoria dei modi, delle passioni e delle azioni). L’oggetto della sua poetica è quello di determinare il nesso fra varie dimensioni – quali l’affermazione speculativa, l’univocità dell’Essere, la produzione del vero, la genesi del senso nella teoria dell’idea, la costruzione del turpe, l’organizzazione selettiva degli individui sugli individui, i dispositivi della conoscenza, la teoria di Dio. E in maniera indipendente l’una dall’altra, le sue riflessioni – spesso ossessioni – si affidano all’idea di espressione per definire una metodologia, conferendo all’idea dell’opera una nuova struttura che costituisce il cuore del suo pensiero e del suo stile: è questo uno dei segreti della sua diversità.

Fabio Mauri, Senza titolo, 1983

Attraverso il dramma, anche nei disegni e nelle opere su carta Mauri continua l’indagine più che umana e vertiginosa dell’ineffabile. Nei suoi disegni c’è una tensione verso la forma perfetta, il cerchio, i simboli che attingono dalla storia sacra, il sovvertimento della visione, le formule del pathos, le posture, l’iconografia degli scheletri e i loro colori fluo, il Barocco, Picasso, gli animali e i nudi e le trombe squillanti dell’Apocalisse e Cristo e l’ostia del vero amore… Poche volte ci è capitato di aver visto il bene e il male così da vicino, senza quasi accorgercene. Una nudità bella e orribile. Il bene e il male parlano la stessa lingua” 7 .

Quello di Mauri è un universo frammentato, che nel linguaggio scova il grande inganno della Storia, che denuncia le verità della Ragione come la realtà del mondo, quando le stesse parole non esprimono nulla di più di ciò che possono, cioè concetti a sostegno delle azioni.Nella poetica di Mauri emerge una forte carica eversiva e i suoi labirinti e i suoi paradossi scovano l’inganno della razionalità, il centro intorno a cui ruotano le sue elaborazioni e il rapporto uomo/mondo come comportamento. Per lui, infatti, il termine “razionalità” ha due accezioni: da un lato è spirito critico, dall’altro è organizzazione logica del sapere. Una razionalità, dunque, che presuppone l’uso di principi o di argomenti complementari, a volte concorrenti o antagonisti.

Mauri è un artista, questo è il dato certo; tutto con lui diventa materiale artistico: la sua storia personale, l’ideologia, la politica, la filosofia, la scienza, l’estetica… Gli ambiti che avvicina, o da cui è avvicinato, divengono materiali da usare al pari del collage, della fotografia, dell’objet trouvé, della performance, delle proiezioni, del disegno, della pittura, della scultura, dell’installazione. Materiali con cui ha un rapporto fisico, uno scontro corpo a corpo capace di far nascere un incontro unico e personale. Ciò che accomuna il suo lavoro è un tono, una posizione, un contegno, alcuni segreti, un punto di osservazione. In tutte le opere di Mauri il valore risiede nell’efficacia critica nei confronti della realtà stessa e nell’opposizione esercitata di fronte al tentativo di ridurre il linguaggio all’unità mercantile dell’informazione. Attraverso la sperimentazione di rigide regole, le sue opere compongono nuove articolazioni del linguaggio. In tutto il suo lavoro si percepisce un frastagliamento originale della cultura e una separazione analitica – quasi obbligatoria – della vita; si percepiscono abissi fra i discorsi di scienza, etica e politica e le esigenze dell’essere. A partire da queste percezioni, l’artista sembra chiedersi quale sia il modo per ristabilire una unità fra tali ambiti dell’esistenza.

Sono opere che rasentano quasi il misticismo quelle di Mauri, convinto che l’arte sia un’avventura in un mondo “conosciuto”, un mondo che può essere rivelato solo da coloro che intendono assumersi il rischio. Mauri individua le persone con il loro nome e cognome, dove storia personale e storia collettiva si fondono in un flusso di particelle elementari alla ricerca di una consistenza dell’individuo.

E così ogni opera diventa una tensione prodotta da un passaggio. Il corpo, l’oggetto, la parola, gli schermi, il modo di disporre il pubblico acquistano una potenza rara: tutto sembra allontanarsi dalla materia per divenire opera. E sembra non esserci speranza nella storia, ma sembra essercene, ancora, nella dialettica o nell’arte, nell’etica e nell’estetica. Grande interprete del proprio tempo, artista irregolare se non proprio eretico, Mauri agisce un metalinguaggio a sua volta spiegabile da un altro linguaggio, che diventa dunque anch’esso metalinguaggio, e così via fino a scoprire che nessun linguaggio è stato spiegato.

Con Mauri non si esce dal discorso per adottare una posizione invulnerabile. Ogni tipo di discorso, compresi quelli di investigazione critica, sono allo stesso modo metafore, citazioni, echi e referenze, per cui lo spettatore è libero di fermarsi o di attraversare rapidamente i processi dell’opera. Il tentativo di trovare una struttura è vano, poiché ogni opera possiede una differenza.

Dunque, fin dall’inizio Mauri ci pone di fronte all’evidenza che qualsiasi opera è, al pari del pensiero, instabile, che ha bisogno di strategie, di correzioni, di regolazione, di auto-regolazione, e che la riduzione a un sistema coerente di idee della realtà è tanto impossibile quanto inutile.

Per Fabio Mauri la conoscenza non è il riflesso del mondo. Ogni conoscenza è al tempo stesso costruzione e traduzione: per lui, la conoscenza è l’opera.

Il discorso diverso di Mauri investe una società alienata che produce, attraverso la fotografia, il cinema e la televisione, immagini di sé mercificate. Ma l’opera può sfuggire alla meccanicità della percezione abituale recuperando uno sguardo ispirato a un nuovo modo, non mediato, di guardare e rapportarsi alla realtà. Quello dell’opera di Mauri è uno sguardo puntato sugli spettatori che può testimoniare il nostro essere al mondo. Una creazione dell’immagine nella quale predomina la visione, lo sguardo per riuscire ad arrivare alla realtà dell’immagine, svincolato dall’organizzazione e dall’attesa cognitiva. A volte quelle di Mauri sembrano semplici annotazioni: un insieme – più intuitivo che organizzato – di fatti sparsi che, eccezionalmente, rimandano a discipline costituite; e che, catalogate sotto la voce “varie”, formano zone particolari di cui si sa solamente che non si sa un granché, ma dove si presume che si potrebbero trovare molte cose qualora si decidesse di prestarvi un po’ di attenzione. Sono fatti banali, passati sotto silenzio, tenuti in nessun conto; eppure ci descrivono, nonostante noi crediamo di poterci dispensare dal descriverli, con molta più acutezza e attualità della maggior parte delle istituzioni e delle ideologie a cui i sociologi ricorrono abitualmente per le loro ricerche. Rinviano alla storia del nostro corpo, alla cultura che ha modellato i nostri gesti e i nostri atteggiamenti, all’educazione che ha formato i nostri atti motori non meno di quelli mentali. E così la marcia e la danza, la corsa a piedi e il salto, i modi di riposare, le tecniche di trasporto e di lancio, etc. Per Mauri ogni opera è un atto. Egli ha reso elementi centrali l’assenza, gli eventi di lenta o repentina scomparsa, i tentativi di recupero. Il primo pezzo di questo puzzle percettivo è la fascinazione ossessiva per gli oggetti: Mauri riserva un’attenzione estrema alla descrizione delle cose di uso comune, quotidiano, quanto più marginali tanto più meticolosamente presentate ed esposte. Anche qui, a dispetto dell’apparente neutralità di uno sguardo che sembra distaccato nel cogliere la superficie – in senso stretto – della realtà nei suoi aspetti minimi, non considerati quasi mai dalla Storia e solo occasionalmente dalla Letteratura, il risultato artistico è invece un contatto profondo con l’essenziale narrativo e umano, un’esperienza emozionante: le cose evocano e descrivono in profondità, con l’indispensabile strumento della memoria.La memoria, dunque, e in particolare quella che abbraccia ciò che Georges Perec chiama l’“infraordinario”: “tentare di cogliere non ciò che i discorsi ufficiali (istituzionali) chiamano l’evento, l’importante, ma ciò che è al di sotto, l’infraordinario, il rumore di fondo che costituisce ogni istante della nostra quotidianità” 8 . Questo “al di sotto” costituisce il tema di una pratica quotidiana di cui né la Storia né la Letteratura si fanno carico, e quindi, strettamente connessa alla memoria, quella che è stata definita la vertigine tassonomica: il ricorso frequentissimo a oggetti che determinano immediatamente una situazione. Mauri metabolizza e ricrea un repertorio narrativo ampio e costitutivo di un’ipotesi di svelamento, di connessione, di senso ultimo della sua opera. E se le cose, gli oggetti, sono in Mauri strumenti attivatori e al tempo stesso oggetto di memoria, descrizione del mondo e ricostruzione di identità, l’atto di elencarli, di ricordarli tutti, senza eccezioni, diventa necessario per la salvaguardia della realtà e dell’identità personale. Emerge l’ansia della perdita, della sparizione. Elencare e descrivere per non perdersi irrimediabilmente mentre il vuoto e la morte si fanno avanti come protagonisti della sua opera, e il gioco trasfigura nell’immagine dell’abisso. L’opera è quindi cercare meticolosamente di trattenere qualche cosa, di far sopravvivere qualche cosa. A partire da propri elementi di esperienza, Mauri comincia a interrogarsi sulla propria storia personale per comprendere quanto la Storia, quella “grande”, l’abbia invasa e sopraffatta, plasmata in maniera determinante: l’essere diverso era inizialmente il segno di un’assenza, di una mancanza, o forse di un’onnipotenza. “Ho voluto, esprimendola [la poesia], sbarazzarla di quel potere che esercitano gli oggetti, gli organi, i materiali, i metalli, gli umori, a cui, per tanto tempo, fu reso un culto (diamanti, porpora, sangue, sperma, fiori, stendardi, occhi, oggetti d’oro, unghie, corone, collane, armi, lacrime, autunno, vento, chimere, pioggia, marinai, crespo) e disfarmi del Mondo che simboleggiano (non di quello che esprimono, ma di quello che evocano e in cui m’impantano). […] Può un’arte nascer solo per custodire come un reliquiario fatti che proprio costoro per primi vorrebbero dimenticare?”,scrive Jean Genet, in un frammento che sembra dedicato proprio a Mauri 9 .È molto diverso il Mauri delle installazioni e delle performance dal Mauri delle opere di carta. Il disegno sembra fungere per lui da metodo di ricerca e parallelamente da zona franca della visionarietà, ed è proprio questa dualità, ancora una volta, che evidenzia la sua attitudine a non irreggimentarsi in dogmatismi definitivi.

“Presenza” sembra essere la parola più giusta per descrivere la sua produzione, di stile, di significato, di intenzione; se tutto il resto è assente, infatti, cosa resta delle opere di Fabio Mauri, se non la loro stessa presenza – fisica ed evidente – all’interno del mondo? Il significato, nel suo caso, non va ricercato in un’interpretazione esterna alle opere, ma più probabilmente nella loro stessa esistenza, nel loro stare al mondo. Non si tratta di immagini rappresentative di una realtà altra, ma sono esse stesse delle realtà indipendenti, la porzione di realtà che entra nell’opera e che è composta dall’opera stessa. Questi lavori parlano della realtà, non attraverso interpretazioni o sovrastrutture, schemi e modelli interpretativi che ne precludono inevitabilmente una conoscenza esatta, ma semplicemente esistendo. Per apprezzare le opere di Mauri bisogna allora rinunciare a ogni preconcetto (specialmente riguardo questioni quali figurazione e astrazione, rappresentazione e interpretazione), lasciarsi andare al gioco della scoperta, e godersi l’incontro. Per Mauri non si può ignorare il farsi avanti di un’inderogabile urgenza etica rispetto alle questioni del mondo; per lui, la perdita della parola è anche una perdita di visione. Non si tratta, certo, di politica nell’accezione comune, ma è indubbio che l’arte sia un “atto politico”, perché crea un’immagine del sé e del collettivo, e la ragione di ciò risiede nell’obiettivo stesso dell’opera d’arte, concepita quale mezzo per destare emozioni potenti e complesse.

Romantico, mitico, fratturato, proiettato, smaterializzato: un corpo, quello dell’arte, che segna l’aspirazione a una visione che vada al di là della produzione dell’oggetto artistico e si manifesti come gesto nella dimensione dell’esistenza. Il corpo dell’opera di Mauri diventa un simbolo e un processo attraverso cui le energie si scaricano in forme di comportamento istintivamente poetiche. Ogni sua opera è un “andamento”, una partitura in cui comportamento, istinto e linguaggio si unificano e la visione non è più solo un mezzo espressivo dell’arte ma un oggetto della creazione estetica. L’opera di Mauri è in sé una scrittura, un sistema di segni che traducono poeticamente la necessità della ricerca indefinita dell’Altro da sé. Il confine tra visibile e invisibile non è più una frontiera tra materia e spiritualità, ma è un gesto, una formula, un audio, una proiezione… è la visione stessa che muta. Si tratta di porre l’attenzione sui processi del divenire della sfera sensoriale, del decomporsi e ricomporsi della materia, suggerendo di scegliere il punto di vista di una materialità più intima, più profonda. L’invisibile non è soltanto nell’ordine dello spirituale. Invisibile è la trama della materia, il suo movimento.

La memoria per Mauri rappresenta un punto fermo dal quale partire, a cui ricapitolare non tanto e non solo la propria esperienza ma anche la propria conoscenza. Riemergendo dal pozzo della memoria come una folgorazione, un lampo di verità nella penombra della Storia, la memoria è per Mauri un punto di partenza gnoseologico, verità prima sul mondo e poi su di sé. È luogo primo sul quale costruire una conoscenza, ma anche una coscienza che sappia riconoscere principi di discernimento.

Il ricordo, per Mauri, “trema”.

Fabio Mauri, Ricostruzione della memoria a percezione spenta, 1988.
Foto: Elisabetta Catalano
NOTE
1.

Gilles Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 133-134.

2.

Emmanuel Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodilibet, Macerata 2012, p. 96.

3.

Karl Löwith, Significato e fine della storia, Edizioni di Comunità, Milano 1963, cit. in

Norberto Bobbio, Dialogo sul male assoluto, MicroMega 2/2010, p. 83.

4.

F. Mauri, Che cosa è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo, in Scritti in mostra. L'avanguardia come zona 1958-2008, a cura di Francesca Alfano Miglietti, il Saggiatore, Milano 2008, p. 75.

5.

Philippe Sollers, Théorie d’ensemble, Seuil, Paris 1968, p. 107.

6.

Martin Heidegger, Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1996, p. 37.

7.

Fabio Mauri, Scritti in Mostra, a cura di Francesca Alfano Miglietti, il Saggiatore, Milano 2008, p. 75.

8.

Georges Perec, L’infra-ordinario, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 72.

9. Jean Genet,  Miracolo della rosa, il Saggiatore, Milano 2019, p. 245.