Questo testo introduce un lavoro pluriennale di catalogazione delle opere e dei filoni di ricerca di Fabio Mauri (Roma, 1926-2009), artista e intellettuale che ho avuto il privilegio di conoscere nei primi anni ottanta del secolo scorso. È stato realizzato con l’aiuto, i saperi, la dedizione e l’amore di molte persone, a partire da Sara Codutti che mi ha assistito nell’enorme impegno redazionale, fino a coloro che lavorano oggi allo Studio Fabio Mauri – Associazione per l’Arte L’Esperimento del Mondo e che per molti anni (chi più, chi meno) hanno operato nello studio romano dell’artista, affiancandolo e aiutandolo a realizzare le sue opere: Ivan Barlafante, oggi direttore dello Studio, Marcella Campitelli, Dora Aceto, Claudio Cantelmi, Sandro Mele e Serena Basso. Angeli custodi della sua eredità, hanno fornito un aiuto imprescindibile. Preziosi e collegiali, gli altri membri del nostro Comitato Scientifico – Laura Cherubini, Francesca Alfano Miglietti, Andrea Viliani, a cui si è aggiunta recentemente anche Caroline Bourgeois – sono fini conoscitori dell’opera di Fabio Mauri e hanno collaborato a discernere le categorie necessarie all’ordinamento di un progetto artistico, quello di Mauri, che proprio dalle categorie rifugge: quale profonda aporia.
Così, siamo giunti non alla semplice suddivisione in Disegno, Pittura, Scultura, Performance e Installazione, bensì a una più complessa classificazione che comprende:
1. Opere a parete:
(1a) opere a parete non aggettanti [(1a.i) su tela o su tavola, (1a.ii) su carta, (1a.iii) fotografie];
(1b) opere a parete aggettanti;
(1c) opere giovanili.
2. Opere nello spazio:
(2a) installazioni [(2a.i) installazioni con performance, (2a.ii) installazioni con proiezione];
(2b) oggetti;
(2c) performance [(2c.i) performance con installazione, (2c.ii) performance senza installazione, (2c.iii) performance con proiezione, (2c.iiii) conferenze-performance].
3. Multipli:
(3a) oggetti multipli;
(3b) libri;
(3c) grafiche.
4. Altro:
(4a) plastici e modellini
1 ;(4b) disegni progettuali;
(4c) opere letterarie;
(4d) scenografie;
(4e) canzoni;
(4f) diari;
(4g) video.
Ad arricchire questo Catalogo generale si sono aggiunti scritti di familiari (le premesse di Santiago Mauri e di Achille e Sebastiano Mauri), di intellettuali amici dell’artista e di altri che guardano l’opera dall’esterno, senza conoscenza diretta della persona che era Fabio Mauri: oltre a quelli dei già citati membri del Comitato Scientifico, il volume contiene scritti di Giacomo Marramao, filosofo e amico dell’artista, Hans Ulrich Obrist, curatore che lo ha intervistato, e Leonardo Caffo, filosofo.
Conobbi il fratello Achille Mauri (Rimini, 1939 – Rosario, 2023) solo dopo la scomparsa dell’artista nel 2009 e, per lapsus, per errore, o per fortuna, lo chiamavo spesso Fabio. Sorrideva, fiero di impersonarlo. Questo lavoro è stato fortemente voluto proprio da Achille, affinché l’opera del fratello maggiore potesse essere tramandata alla Storia in maniera scientifica, e quindi in maniera sommamente misteriosa, poiché i punti di vista parziali giovano all’incertezza del sapere, anche quello più apparentemente oggettivo della scienza.
I figli di Achille, nipoti dunque dell’artista, Santiago e Sebastiano Mauri (rispettivamente Presidente e Vicepresidente dello Studio che conserva gli archivi, le opere e la biblioteca dell’artista), hanno mantenuto la bussola dritta dopo la scomparsa dell’amato padre e hanno portato a compimento questo lavoro, sostenendolo in molte maniere, come hanno scritto nelle prefazioni.
Fabio Mauri è stato per me un maestro e un amico, un uomo già maturo che avvicinai su suggerimento di Giancarlo Politi chiedendogli di illustrarmi la verità tra arte e mondo, allorché redigevo un saggio commissionatomi sulla relazione fra arte e politica
Riferimenti a concetti di fisica, diagrammi, formule e teorie sull’universo affiorano spesso nell’opera di Mauri, che amava leggere libri di fisica. Sempre in bilico fra teologia e astrofisica, gli studi sull’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande lo hanno portato a riflettere nelle sue opere sui concetti di materia, energia, tempo e sul mistero dell’universo.
Universo: una parola che ricorre spesso negli scritti e nelle opere di Mauri, come ad esempio in Insonnia per due forme contrarie di universo, un cartellone allestito in via Portuense a Roma nel 1978. L’opera allude a un mondo che forse non è conoscibile, oppure potrebbe esserlo se solo se ne trovassimo la formula. L’opera cita il diagramma di Willem de Sitter, derivato dalla teoria della relatività generale di Albert Einstein, la quale descrive l’universo primordiale a partire da una costante cosmologica che dà conto dell’energia oscura nel campo di un universo in espansione. Abbiamo parlato per anni di questo universo, così presente eppure inafferrabile, ma non abbiamo mai parlato di Dio; eppure, vi sono poche cose così profondamente religiose come la ricerca di Mauri, tesa a comprendere un universo senza centro, dove misteriosamente sono presenti il Bene e il Male, la conoscenza e il suo abuso che porta alle mille forme di sofferenza, da quella umana a quella cosmica. Un universo che urla, o forse, un universo che piange. Unus vertere: qualcosa di tutto intero che gira e si volge in maniera unitaria, un concetto del Trecento, simile al Cosmo, ma più specifico perché composto da forze in attrazione relativa.
Per me, e per il mondo dell’arte, Mauri era un artista del bianco e nero, an-espressivo e precisissimo nel metodo e nella forma, che poneva davanti allo spettatore la realtà così com’è e ne rivelava l’assurda crudeltà, quasi l’opera fosse un esperimento condotto dentro a un laboratorio di fisica. Il suo universo era poco abitato dai colori – qualche macchia di rosso qua e là e niente più – e dagli sfoggi di una capacità grafica virtuosa. In anni recenti, dopo la sua scomparsa, si sono scoperte invece numerose prove espressioniste e coloratissime, carte a soggetto religioso fatte nei primi anni del secondo dopoguerra e poi soprattutto dagli anni ottanta in poi. Sono lavori infuocati, passionali, e anche infantili, che esprimono una parte del carattere che Mauri ha sempre tenuto in libertà vigilata: un sé folle sotto osservazione, profondamente desiderante di una forma d’arte più semplice e diretta, a lui non concessa per via del suo acceso pensiero critico, adorniano, che non vedeva possibilità di poesia lirica nel mondo contemporaneo, eppure vi inciampava a ogni passo. Questi primi e ultimi disegni irrompono in questo Catalogo generale, e lui ci perdonerà per averli raccolti e mostrati al mondo. Ne complicano la lettura, la rendono impossibile o, piuttosto, infinita.
Nel corso degli anni ottanta ebbi un’intuizione che lo sorprese, ma con la quale Mauri finì per concordare: che tutta l’apparente eterogeneità del suo lavoro si poteva raccogliere sotto un unico grande tema, un’unica grande forma, ovvero lo Schermo, in quanto ogni cosa era determinata dalla questione teorica della proiezione – sullo schermo e dallo schermo. Lo Schermo non era quindi solo un capitolo della sua opera, durato alcuni anni tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio dei sessanta, ma sottendeva tutto. Questa ipotesi, quindi, apparve in alcuni suoi scritti e nella prima monografia
Fino al 1994, con Mauri ancora solidamente in vita, era invece facile pensare che la sua opera si snodasse nel tempo attraverso diverse e distinte fasi, ognuna delle quali condivideva poco con le precedenti e con le successive: dall’espressionismo pittorico al collage neo-dada; dall’azzeramento essenziale alla scultura “minimalista”; dall’arte d’impegno e di analisi ideologica alle installazioni mute ma piene di oggetti dei primi anni novanta e dell’inizio del nuovo secolo. Analogamente, era facile pensare che Mauri si fosse cimentato contemporaneamente in diversi, distinti generi espressivi quali la pittura, il teatro, la scultura, l’installazione, l’arte della performance e la riflessione teorica. Si poteva, ancora, ritenere che i primi dipinti e disegni religiosi della fine degli anni quaranta, o quelli espressionisti degli anni 1954-1956 quali Balcone, folla o Gli amori difficili, nulla condividessero con i collage di fumetto e pittura, di stampo neo-dadaista, dei tardi anni cinquanta, quali Cartooning; e che questi, a loro volta, poco avessero a che fare con i freddi e monocromi schermi bianchi di carta o tela su telaio aggettante, anch’essi realizzati alla fine degli anni cinquanta e nel 1960. Qual è poi la relazione fra i successivi Schermi-targa d’inizio decennio sessanta – in cui l’opera riflette semiologicamente sui segnali stradali urbani e ne incorpora gli elementi – esposti alla Galleria La Salita di Roma nel 1963, e l’ambiente Luna del 1968, realizzato in occasione del Teatro delle mostre alla Galleria La Tartaruga, sempre a Roma? Allo stesso modo, quale mai poteva essere il nesso fra questo ambiente, che introduce lo spettatore in un mondo “virtuale” di polistirolo, e le brucianti esperienze di memoria storica “vera” delle opere e azioni ideologiche realizzate a partire dal 1971, anno in cui Mauri presentava a Roma per la prima volta l’azione complessa Che cosa è il fascismo, seguita lo stesso anno da Ebrea e successivamente da Vomitare sulla Grecia (1972), Manipolazione di cultura (1973-1976), Linguaggio è guerra (1975) e Oscuramento (1975)? Sempre seguendo questo discorso, ci si poteva chiedere quale fosse la relazione fra queste opere decostruttive della storia politica e ideologica europea e, invece, la serie delle Proiezioni che l’artista aveva realizzato a partire dalla metà degli anni settanta, letteralmente proiettando film d’autore su corpi, oggetti, edifici e boschi, come nell’opera Intellettuale (1975), in cui il film Il Vangelo secondo Matteo veniva proiettato sul petto del suo autore Pier Paolo Pasolini, in camicia bianca, seduto su una sedia. E cosa significavano, in relazione a questo ingombro tutto fisico, le conferenze di estetica punteggiate da performance che l’artista iniziò a presentare nel 1987, come Dio e la Scena o Ricostruzione della memoria a percezione spenta (1988), quasi a voler cancellare il limite fra teoria estetica e pratica artistica, illustrando la teoria con l’opera e viceversa, fino a confutarne la distinzione?
Numerosi ed eterogenei sembrano i temi affrontati da Mauri, dunque, e diverse le modalità espressive che di volta in volta egli adoperava. Invece, un fondamentale filo conduttore, quasi un’ossessione, ha percorso ogni mossa dell’artista, e ne ha determinato la multiformità dell’agire. Alla base di tutto vi è una riflessione sullo schermo – quello cinematografico e quello televisivo – e sulle implicazioni della proiezione
Oggi vorrei aggiungere che l’altra questione, ancora più ovvia, che accompagna la sua vita e la sua opera è l’interrogazione circa le cause e le modalità d’esistenza del Male, nell’ecologia di un universo che non necessariamente lo debba prevedere, nonostante Darwin. Mauri esplora dunque il tema del Male, che sembra contraddire ogni logica di un cosmo ordinato dell’universo. È questione teologica, artistica, morale, biologica, fisica. Nel 1974 egli ebbe occasione di affermare: «mi pare d’avere individuato alcuni punti alternativi: uno, per operare un giudizio di tipo ideologico sulla società contemporanea e quindi su noi stessi, è necessario avere una nozione di bene e di male. L’avanguardia sembra esente da questo. Si pensi all’arte astratta, a queste zone laiche, intatte, al di fuori del dibattito etico e politico. Considero l’arte, chiunque essa sia, un fenomeno particolarmente reale, che ha la stessa fisicità, poniamo, di una coppia di cavalli, o di un individuo»
Ma torniamo alle opere.
Fra i protagonisti dell’avanguardia italiana del secondo dopoguerra, Mauri è stato una figura poliedrica – artista visivo, scrittore, drammaturgo, fondatore di riviste, editore, docente.
La pratica artistica, che Mauri reputava essere l’attività principale della sua vita, è fin dall’inizio un campo di sperimentazione entro cui verificare diversi pensieri e teorie: nei suoi collage a fumetti, negli Schermi, nelle Proiezioni e nelle performance, usando grafite, pigmenti, carte, oggetti, pellicole, corpi e suoni, egli ha cercato costantemente di «comprendere la natura cifrata del mondo restituendola in precipitati di senso in forma di opere d’arte»
La sua vicenda è anche intimamente connessa a quella dell’editoria italiana del XX secolo. Strettamente legato alla famiglia Bompiani, suo padre Umberto fondò nel 1932 insieme ad Arnoldo Mondadori (Poggio Rusco, 1889 – Milano, 1971) e Valentino Bompiani (Ascoli Piceno, 1898 – Milano, 1992) la società Helicon
Nel 1952 Mauri venne ufficialmente e definitivamente dimesso dall’ospedale psichiatrico Ville Turro di Milano e l’anno seguente, nel 1953, maturò la decisione di fare l’artista. Molti disegni di questo periodo sono influenzati da Pablo Picasso (Malaga, 1881 – Mougins, 1973) e in particolare da Guernica (1937), che proprio nel 1953 era stato esposto nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale a Milano, ancora danneggiata dai bombardamenti del 1943. Il tema religioso si mescolò a soggetti più laici, pur senza mai abbandonare i motivi spirituali. «Quando tornai alla vita borghese di Milano, nel 1954, ricominciai a disegnare e dipingere. I miei referenti artistici erano Kokoschka, Nolde. A Carlo Cardazzo, proprietario con il fratello Renato della galleria Il Cavallino di Venezia, piacque molto quello che facevo, mi organizzò subito la prima mostra personale»
Fabio Mauri. Esperimenti nella verifica del Male, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli (Torino), 16 dicembre 2023 – 24 marzo 2024, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, Sara Codutti, Marianna Vecellio. Foto: Sebastiano Pellion di Persano.
Mauri dunque visse l’infanzia durante il fascismo, attraversò la guerra e maturò il suo pensiero e la sua opera negli anni cinquanta, quando cinema e televisione si insinuavano nella vita quotidiana con le prime trasmissioni RAI del 1954. In questo contesto va collocato l’inizio della sua ricerca, quale contributo paritetico e spesso anticipatorio del dibattito artistico, sociologico e filosofico che andava svolgendosi attorno alla teoria della comunicazione; dibattito che si sarebbe sviluppato soprattutto dopo queste prime e precoci riflessioni, nel corso degli anni sessanta.
L’iniziale produzione di dipinti e disegni di Mauri conobbe un primo punto di svolta quando, nel 1956, da Milano l’artista si trasferì a Roma, dove venne a contatto con l’arte di Alberto Burri (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995): «un incontro risolutivo, sovraccarico di conseguenze»
Si tratta di strutture paratattiche
In questo periodo Mauri iniziò a realizzare i primi Schermi, a partire dallo Schermo-Disegno. Verticale/Orizzontale del 1957, costituito da un cartoncino bianco sul quale è dipinta lungo i bordi una fascia nera che richiama, nel formato, lo schermo cinematografico, in formato quasi 16/9. A prima vista in linea con le tendenze del periodo, rivolte all’azzeramento e al monocromo, lo Schermo-Disegno di Mauri in realtà si distingue da esse in quanto non si limita a una riduzione formalista dell’opera pittorica ma punta a trascendere il livello della mera rappresentazione: tracciando una cornice nera su un foglio di carta bianca, l’artista crea a tutti gli effetti uno “schermo”, campo potenziale di proiezione in cui tutte le immagini sono possibili o sono forse già accadute.
Dal 1958 si sono aggiunti Schermi di carta tesa su telai aggettanti e poi di tela, i quali riprendevano la forma di un apparecchio televisivo che protrudeva in avanti verso chi lo guardava. Emblema di un’emergente società “mediale”, lo Schermo di Mauri diventava un’opera “di secondo grado”, non letterale schermo per la proiezione ma significante in sé stesso.
Mauri indagava dunque il mondo semiologicamente ancor prima che il termine fosse stato coniato. Nelle sue opere, a partire dai primi Schermi, ogni elemento della realtà è segno linguistico e ogni segno linguistico è realtà. Queste esperienze, che dureranno fino ai primi anni sessanta, porteranno Mauri a sviluppare sul finire del decennio un’arte basata sull’indagine della relazione tra bellezza, male, ideologia e potere. La sua opera, coeva alla Pop Art americana e inglese, vede l’Europa non come principalmente una società dei consumi e dello spettacolo, bensì come una società che produce in primo luogo, nel bene e nel male, ideologie.
Il cinema e la televisione sono un mondo “doppio”, in apparente diretta, in cui proiettarsi ed essere proiettati. Dalla fine degli anni cinquanta lo schermo, implicitamente o esplicitamente presente nelle opere, viene inteso da Mauri quale emblema fondamentale della civiltà dell’immagine, una società mediale in cui la comunicazione assurge allo statuto della conoscenza (del reale) nonché a quello della prassi stessa (ogni elemento concreto e pratico della vita). Non più dunque un’arte rappresentativa e pre-moderna, né l’opera formalista e autonoma del “modernismo”, che fa della ricerca sulla percezione uno dei suoi principali obiettivi, come accade nell’avanguardia astrattista del XX secolo.
Fin dagli esordi, l’opera è per Mauri un “secondo grado”, una meta-opera che parla dell’esperienza della realtà in un modo meta-reale; vuole essere una decostruzione critica dei meccanismi di manipolazione del pensiero, nonché un’esplorazione dell’identità del soggetto in un’epoca complessa di esperienze pre-determinate da rappresentazioni narrative, filmiche e fumettistiche e da tutti gli altri apparati ideologici contemporanei. L’arte per Mauri consiste appunto nel creare situazioni in cui si deve fare i conti criticamente, “esperienzialmente” e anche psicoanaliticamente con questa condizione di predeterminazione, e svolge pertanto una funzione di catarsi conoscitiva e di responsabilizzazione etica degli atti individuali.
Fabio Mauri. Esperimenti nella verifica del Male, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli (Torino), 16 dicembre 2023 – 24 marzo 2024, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, Sara Codutti, Marianna Vecellio. Foto: Sebastiano Pellion di Persano.
Lo Schermo bianco (1957-1960), ripreso in anni successivi, è solo apparentemente lontano dall’accumulo di elementi giustapposti dei collage. Esso è l’altra faccia del flusso dei segni, è il luogo di ogni possibile proiezione, di ogni possibile narrazione. È il linguaggio. È il “mezzo” ed è il messaggio. È uno schermo dove ogni proiezione, ogni film, ogni fumetto è già stato, dove si percepisce, nel suo fondamentale vuoto e nell’apertura semiologica ai segni del mondo, anche il rischio che la società mediale corre: quello di un mondo senza libero arbitrio
Proprio negli stessi anni in cui Mauri rifletteva sulla predeterminazione di ogni esperienza, a cui allude attraverso la scritta «THE END» ripetuta nei collage e in alcuni Schermi nonché attraverso i continui riferimenti ai luoghi dei messaggi occulti, il giornalista e sociologo statunitense Vance Packard (Granville Summit, 1914 – Martha’s Vineyard, 1996) scriveva The Hidden Persuaders, pubblicato nel 1957 e tradotto in italiano (per Einaudi) nel 1958 col titolo I persuasori occulti. Anche Packard denunciava la possibilità di una perdita di libertà di scelta a causa della manipolazione del pensiero operata dai pubblicitari, all’insaputa dei consumatori, con gli strumenti delle ricerche motivazionali e della psicanalisi applicata al marketing.
Nell’ambito della teoria della comunicazione, però, più che a Packard gli Schermi di Mauri fanno pensare alle tesi del mezzo come messaggio di Marshall McLuhan (Edmonton, 1911 – Toronto, 1980), i cui due principali testi, The Gutenberg Galaxy: The Making of Typographic Man (1962) e Understanding Media. The Extensions of Man (1964) sono stati pubblicati in italiano rispettivamente nel 1976 (La galassia Gutenberg: nascita dell’uomo tipografico) e 1967 (Capire i media: le estensioni dell’uomo).
L’ideologia è una “cosa”, una cosa concreta e tangibile, ha sempre pensato Mauri; non ha nulla di astratto e puramente immateriale, e non esiste alcun mondo platonico delle idee. L’ideologia vive nelle cose concrete e nelle azioni e provoca effetti potenzialmente devastanti sul piano storico. In linea con tutta la ricerca sociologica e semiologica – fra cui appunto quella di McLuhan sul rapporto fra tecnologia e conoscenza – Mauri espone il mezzo, indicato dallo schermo; e il mezzo è il suo messaggio, senza bisogno di apporvi null’altro. Lo Schermo è un oggetto, è un elettrodomestico, un monitor, o addirittura una “ghiacciaia”, come ironicamente l’artista amava indicare. Non appartiene dunque a quel filone d’arte modernistache conduce al monocromo bianco e vuoto quale esito di un processo di riduzione formalista.
L’azzeramento dell’espressionismo informale avviene, in questo caso, come apertura all’appropriazione semiologica del contesto. Se l’immagine pubblicitaria è anch’essa una “cosa”, ne consegue che le cose sono segni; ed ecco apparire nel percorso di Mauri un’opera come Cassetto (1960), esposta nel 1962 nella mostra del Nouveau Réalisme curata da Pierre Restany alla Galleria La Salita di Roma: una cassetta di legno appesa a parete contiene nello spazio tridimensionale un collage di elementi diversi, di “oggetti comprati” (fra cui scatole di pasta Buitoni), con chiaro riferimento al concetto duchampiano del ready-made quale objet trouvé modificato.
Anche Umberto Eco, che aveva collaborato con Bompiani proprio quando Mauri ne dirigeva la redazione romana e ordinava i materiali dei primi due volumi del nuovo Almanacco Bompiani (1959 e 1960), studiava a livello teorico, e in maniera parallela alla ricerca visiva di Mauri, proprio il mondo come universo semiologico in cui tutti i fenomeni comunicativi, a diversi livelli di organizzazione e complessità, sono sistemi di segni con propri codici
Non è un caso, quindi, che Mauri sia stato fra i primi artisti dopo Burri ad aver “provocato” la superficie piana della pittura creando, a partire dal 1958, quadri aggettanti, gli Schermi per l’appunto, che costituiscono la sua la prima profonda presa di coscienza artistica del rapporto fra tecnologie della comunicazione di massa e manipolazione ideologica. Mauri era convinto che l’Europa avesse creato l’ideologia e che l’ideologia avesse un peso fisico, capace di produrre il Male.
E così nel 1958 Mauri crea un monocromo fatto di tela sagomata aggettante verso lo spettatore, spinta da un telaio a forma di schermo, con i bordi arrotondati proprio come un televisore. Da quell’inizio nel 1958 fioriscono tutte le famiglie di successivi Schermi
Dopo la forma aggettante, oggettualizzata e bianca dei primi Schermi di carta o tela nel 1958-1960, fino al 1963, l’artista usa una garza fine nella parte superiore del telaio, capace di far filtrare alla vista segni-oggetti sottostanti. Nella parte inferiore e non velata degli Schermi-targa (quali Drive in, 1962) appaiono oggetti-segnali a forma di targhe automobilistiche, rettangolari e dai bordi smussati come quelli di uno schermo, che indicano lo spettatore stesso. Negli Schermi-targa infatti l’osservatore non solo si proietta nel quadro-schermo, ma è anche rappresentato nella parte inferiore sotto forma di piccolo rettangolo nero aggettante. Come in un grande cinema drive-in degli anni sessanta, dove gli spettatori assistono alla proiezione di un film restando nelle loro automobili ordinatamente parcheggiate sotto uno schermo gigante all’aperto, chi osserva l’opera di Mauri si ritrova proiettato all’interno di un mega-schermo in cui egli stesso è schermo e proiezione. Il pubblico è parte della comunicazione, ed è dunque anche parte del messaggio stesso. L’oggetto è entrato nella sfera del soggetto, fuori dalla superficie del quadro; ma al contempo è anche il soggetto a essere introiettato nello spazio semiologico, a essere già diventato segno
Sotto la garza della porzione-schermo del dipinto traspaiono, quasi fossero messaggi subliminali di qualche persuasore occulto, anche strisce di segnali stradali
Le Pile e i Cinema a luce solida, elaborati nel 1967-1968 ed esposti a Roma e Milano nel 1968, costituiscono un ulteriore capitolo del processo di oggettualizzazione dei messaggi, e di conseguenza dei mezzi di comunicazione. Così come gli Schermi pongono lo spettatore dinanzi al luogo della proiezione, e gli Schermi-targa sottolineano la compartecipazione del ricevente al messaggio, le Pile e i Cinema a luce solida presentano, come se fosse un solido tridimensionale, il fascio di luce che serve alla realizzazione di ogni immagine proiettata, anch’esso sottratto a ogni presunta neutralità della comunicazione. La luce, come il segno, come il pensiero, come l’ideologia sulla quale l’artista si soffermerà direttamente nelle opere degli anni settanta, è una cosa, pesante e ingombrante, ben lontana dall’utopistica visione dell’arte tecnologica e cinetica del periodo che ne fa un elemento ludico e liberatorio. A quella visione, a quella utopia, la riflessione di Mauri si contrappone radicalmente, come un macigno.
Più di un anno prima dell’allunaggio dell’Apollo 11 nel luglio 1969, vissuto televisivamente e in diretta da buona parte del mondo occidentale, Mauri presenta a maggio 1968 l’ambiente Luna in occasione della serie di interventi d’artista Teatro delle mostre alla Galleria La Tartaruga. Si tratta di un passo decisivo verso il coinvolgimento diretto e letterale dello spettatore all’interno degli Schermi. L’artista costruisce uno spazio chiuso e buio, simile a un’astronave, e lo riempie di palline di polistirolo espanso bianco, un nuovo materiale artificiale. Lo spettatore ormai attore vi si addentra, quasi stesse penetrando all’interno del mondo artificiale dello schermo, quasi fosse possibile fare esperienza reale del mondo mediale: fisicamente e letteralmente entrare in un monitor, e non solo proiettarvi i propri contenuti interiori. La Luna completa così l’operazione di rottura dei limiti soggetto/oggetto, reale/virtuale: lo spettatore entra nell’ambiente e ne esperisce la realtà sul proprio corpo. È nello schermo.
E non è dunque un caso che proprio ora, liberato del confine spettatore/proiezione, Mauri si dedichi a realizzare opere in cui, così come i segni sono cose (gli oggetti di Ebrea), anche le figure sono persone (i ragazzi che recitano i ruoli di Che cosa è il fascismo, la giovane che si spoglia lentamente e si riveste in Natura e Cultura, la donna nuda che si taglia lentamente i capelli e li incolla, altrettanto lentamente, sullo specchio fino a realizzare con essi la forma di una stella di Davide in Ebrea). Lo spettatore storico dello spettacolo organizzato in onore della visita di un gerarca nazista in Italia durante il fascismo prende ora corpo, non è immagine astratta. Gli spettatori siamo noi, chiamati a seguire lo stesso spettacolo. Tutto è segno, ma i segni sono cose, e dunque tutto è vero: la pelle “ebrea” e la nostra pelle, la vittima e il carnefice, il manipolatore e il manipolato.
Tutte le opere successive di Mauri terranno conto della necessità di coinvolgere fisicamente lo spettatore, dalle performance con installazione quali Ebrea (1971) e Che cosa è il fascismo (1971) ad azioni come Oscuramento (1975), che comprendeva perfino il consumo di un “caffè di guerra”, o come Via Tasso: un appartamento (1993), dove gli spettatori si ritrovano coinvolti, volenti o nolenti, in un vero e proprio rito religioso, celebrato all’interno dei locali che furono usati dalle SS tedesche come prigione durante l’occupazione di Roma nel 1943-1944. Nel caso di quest’ultima performance, il concetto duchampiano di ready-made è nuovamente portato oltre i limiti previsti. Non è un “oggetto”, nel senso in cui Duchamp lo aveva inteso, a essere prelevato e modificato, ma è una vera e propria “esperienza” (il rito religioso) a divenire opera, pur mantenendo il suo statuto di verità e autenticità. Il confine tra soggetto che osserva e oggetto da osservare, nonché tra sfera personale e vita pubblica e politica, slitta continuamente: anche senza esserne consapevoli, si diventa comprimari e compartecipi di storie altrui. Si è vissuti da – o si diventa complici di – narrazioni e proiezioni.
Quali implicazioni, quali conseguenze provoca l’essere “nello” schermo? L’identificazione fra soggetto ed evento impedisce la comprensione fino a quando il soggetto stesso non è svegliato dal suo torpore attraverso una decostruzione critica del fenomeno. Dentro lo schermo, l’io perde la libertà, e finanche sé stesso. È la suprema violenza della nudità ontologica dell’io, una disumanizzazione totale e tragica, quella presentata nella performance Ebrea, forse la più nota fra le opere di Mauri. Lo schermo, in Ebrea, è sostituito da uno specchio, e i capelli che la ragazza si taglia e incolla sullo specchio sono la “cosa” del corpo, letteralmente “danno corpo”, in un rito di sacrificio assoluto del soggetto, al simbolo – la stella di Davide.
A partire dal 1971, le opere di Mauri non si riferiscono più direttamente al mondo virtuale dello schermo, bensì al racconto che vi è narrato. Ormai all’interno della “proiezione”, lo spettatore è compartecipe, attraverso le azioni di persone vere e attraverso gli oggetti che popolano questo spazio della manipolazione, del manifestarsi e dell’incarnarsi dell’ideologia. Il piccolo Schermo bianco ritorna negli anni settanta come schermo “di secondo grado”, oggetto meta-linguistico che si riferisce ai primi Schermi ma ripetuto quasi ossessivamente e accompagnato, come in Warum ein Gedanke einen Raum verpestet? /Perché un pensiero intossica una stanza? (1972), da frasi in tedesco che ne alterano il senso: ogni frase e ogni schermo diventano il condensato fisico di un frammento di ideologia.
Se l’“oggetto ansioso” della cultura americana era il consumismo, l’attimo, la Coca-Cola, la zuppa Campbell immortalata da Andy Warhol, non è così per quella europea, rifletteva spesso l’artista nelle nostre conversazioni. L’“oggetto” europeo è proprio l’ideologia, così come la proiezione era l’“oggetto” del suo primo Schermo. «L’oggetto ansioso in America coincideva con l’oggetto di consumo […]. Il tema in Europa aveva da qualche parte riscontro. Ma annidato altrove. La presenza implicante della merce non assumeva, da queste parti, uguale forza simbolica. Il “Chianti” non era, né era mai stato, “Coca-Cola”. Permaneva dialettale. Reticente. L’oggetto si configurava in un ordine di significazione per lo meno diverso. L’ansia operava in sé prima e fuori delle “cose”, togliendo loro ogni affidabilità di segno della storia. Un’ideologia presiedeva l’idea stessa di consumo. Era lei stessa l’oggetto. L’“oggetto ansioso”, dico. Non celato nelle cose, negativamente sospeso su di loro»
Opere come Che cosa è il fascismo (1971), Ebrea (1971), Oscuramento (1975), Linguaggio è guerra (1975), Manipolazione di cultura (1973-1976), I numeri malefici (1978), Europa bombardata (1978) e Umanesimo/Disumanesimo (1980) funzionano, come ha indicato più volte l’artista, quali antichi “esercizi spirituali”, immersioni nel male, cure omeopatiche o prescrizione del sintomo, come si direbbe oggi. Si è attratti e sedotti dall’armonia del saggio ginnico, dalla pulizia del dibattito di “mistica fascista”, dall’apparenza intima dei ricordi di famiglia che molti degli oggetti-sculture di Ebrea esprimono. Mauri infatti non riconosceva come valore l’estetica platonica, che pone la bellezza innanzitutto sul piano trascendente. Vedeva le armonie pitagoriche come trappole e inganno. Non riconosceva il bello come bene. Il suo è piuttosto uno sviluppo dell’estetica stoica, perché sul concetto di Bello fa prevalere quello di Bene. L’“esercizio spirituale” è osservare ed esperire il gesto ripetuto della donna nuda che si taglia i capelli davanti allo specchio, avvertire sottilmente l’orrore conferito agli oggetti-sculture che la circondano dai titoli che danno loro un nome (Finimenti in pelle ebrea. Alta scuola militare Oberklandertan-Wien, Carrozzina ebrea ecc.). Mauri proponeva allo spettatore un viaggio nel culmine del male, in cui l’apparente oggettività con cui le cose sono proposte, presentate quasi come “normali” cimeli potenziali di un mondo in cui il nazismo avesse vinto, provoca ribrezzo profondo, indicibile commozione. Il ricordo personale dell’artista del fascismo storico, con il suo culto dell’armonia e della simmetria, del bello e della giovinezza, della semplicità e dell’ordine, assumeva, nella sua opera matura, il carattere di massima bugia, di massimo grado del male che si presenta come bene, dell’apice raggiunto nell’Europa occidentale dalla manipolazione del pensiero.
Il fascismo, con i suoi apparati scenografici e scenotecnici di propaganda, era per Mauri l’epitome della perfezione possibile della politica nell’epoca dello schermo. Il libro Manipolazione di cultura (1976) consiste in una sequenza di montages di fotografie storiche fasciste (la parata, la festa, la regata, il discorso ufficiale ecc.) e si conclude con l’immagine di un cineoperatore d’epoca la cui didascalia recita “filmano tutto”, quasi a sottolineare in modo orwelliano lo stretto legame fra i nuovi media (film), le nuove tecnologie della comunicazione e il consolidamento dello stato totalitario del XX secolo.
La performance Che cosa è il fascismo (1971) affronta direttamente la rimozione collettiva della storia contemporanea attraverso la riproposizione di una cerimonia di ludi juveniles. Di nuovo Mauri portava la sua riflessione sulla predeterminazione dell’esperienza nell’epoca mediale fino alla questione del plagio ideologico quale esempio estremo di persuasione occulta: un plagio operato anche grazie alle modalità proiettive e allo statuto della conoscenza determinato dai mezzi di comunicazione, significativamente sfruttati anche dal regime attraverso lo sviluppo dell’industria cinematografica e della radio.
Lo schermo e la proiezione non sono dunque più riferiti soltanto al mondo post-industriale e simulacrale del cinema e della televisione, ma diventano i luoghi della manipolazione del consenso politico, gli strumenti della più raffinata e pervasiva seduzione ideologica: la “dottrina”, la “mistica fascista”. Non è un caso, dunque, che gli spettatori (seduti nelle tribune dove sono ordinati e divisi secondo categorie, accanto a un “ospite” tedesco di rango rappresentato da un manichino di cera) e gli attori (i giovani che recitano lo spettacolo) si muovano e agiscano sullo sfondo di un grande schermo bianco (questa volta è uno schermo vero) che reca solo la scritta «THE END», ma sul quale vengono proiettati, nel finale dell’azione-performance, una serie di Film Luce d’epoca.
Già prima delle belle “Giovani Italiane” che recitano in Che cosa è il fascismo, in uno dei suoi Schermi Mauri aveva utilizzato Marilyn Monroe,il simbolo seduttivo della femminilità come diva del cinema. L’immagine femminile è per l’artista uomo Mauri ambivalente quanto lo è il linguaggio; è l’oggetto del desiderio, è l’immagine proiettata nello schermo, è il prototipo di una bellezza che può distrarre le facoltà critiche e lasciare campo libero alle persuasioni occulte. Ma è anche il corpo su cui si incide il male, è il diverso che viene rimosso, è la ragazza che si spoglia e si riveste con gli stessi indumenti in Ideologia e natura fino a quando il loro valore ideologico non è completamente stravolto, è il corpo della “Giovane Germania” nell’Europa bombardata, ai prodromi del nazismo. È, infine, il corpo stesso dello schermo, la schiena nuda su cui si è proiettato il film Giovanna D’Arco in Senza ideologia (1975). Finita la performance, finito il Film Luce, quando lo spettatore patriarcale quasi assapora (con un po’ di vergogna) la persuasione riuscita, le immagini scompaiono e si odono soltanto i rumori delle bombe. L’attenzione di Mauri alla funzione ideologica dei media non è lontana da quanto andava scrivendo nei primi anni settanta il filosofo Louis Althusser (Birmendreïs, 1918 – La Verrière, 1990) riguardo alla funzione dei molteplici “apparati ideologici dello stato”, fra cui i mezzi di comunicazione (radio, stampa, editoria, televisione ecc.)
Il televisore che piange, realizzato per la RAI nel 1972, è l’unica opera che Mauri ha fatto per la televisione e, con News from Europe / Vegetables (1978), è il suo unico esperimento di videoarte. L’opera è fondamentale per capire la relazione profonda che intercorre fra le opere semiologiche degli anni cinquanta e sessanta e quelle ideologiche degli anni successivi. Il televisore che piange consiste nello schermo vuoto, senza immagini, dove si ode però il suono di una voce che singhiozza. Parla dunque della sofferenza in epoca mediale, quando questa emozione non viene generalmente associata alla virtualità televisiva. Non è necessario proiettare un film triste: lo schermo è di per sé una fonte di sofferenza, alienazione, disagio. O forse è lo schermo stesso a soffrire.
Le prime trasmissioni sperimentali della televisione sono del 1939 e vengono interrotte dalla guerra. Riprendono nel 1954 in un’Italia rivolta al futuro, che vuole dimenticare. Dimenticare il trauma della guerra. È la RAI Radiotelevisione Italiana. In casa non l’aveva quasi nessuno, si andava a vederla al bar, dopo cena. I programmi teletrasmessi in diretta rappresentavano la modernità, la nascente società dei consumi, ma anche l’utopia di una comunicazione di massa democratica che fosse capace di educare, trasmettere informazioni e notizie, e anche di unire il paese da nord a sud attorno alla lingua italiana e a una nuova civiltà nazionale appena abbozzata dal nuovo cinema. Diversamente dal cinema, però, la televisione avrebbe dovuto essere più vicina alla gente, più gioiosa, e anche “in diretta” – specchio di un tempo presente, istantaneo, che scorre e cambia senza sosta. Nel 1972 – in un periodo in cui intellettuali, semiologi e persone colte ancora programmavano la televisione di Stato – Enrico Rossetti e Paquito del Bosco realizzarono un programma dal titolo Happening che illustrava questa nuova forma viva di arte, diretta a trasformare gesti quotidiani e usuali in simboli dell’identificazione tra vita vissuta e opera artistica. Una sera, dopo un’introduzione storica dei primi happening americani di Allan Kaprow e altri, arriva al televisore degli italiani un’incongrua presenza che dura due minuti e quaranta secondi: Il televisore che piange. Si tratta di un happening commissionato a Mauri, artista capace di considerare lo spazio dello schermo, del monitor stesso, come luogo dove creare un’opera specificatamente legata al suo contesto. Sullo schermo si vede il conto alla rovescia 6, 5, 4, 3, 2, 1 seguito da un frame con il nome FABIO MAURI che precede un fermo immagine sul titolo del lavoro, Il televisore che piange; in maniera incalzante seguono soltanto dodici secondi di schermo bianco accompagnato dal suono di un lamento profondo, ripetuto come un brano musicale ben due volte, «uee, ueee, ueeee + uee, ueee, ueeee». Il lamento si chiude con un breve singhiozzo finale, un ultimo piccolo «ue»: un eccesso, un resto, un attimo in più di dolore. È una voce umana che piange, una voce che solo per un attimo potrebbe sembrare quella di un infante; dopo pochissimo, infatti, ci si accorge che si tratta invece di un lamento di adulto. È un televisore adulto allora, un oggetto personificato e animato che ci parla, che si lamenta del mondo degli umani che lo hanno creato, un mondo vuoto fatto di uomini ormai vuoti. «È questo il modo in cui finisce il mondo / È questo il modo in cui finisce il mondo», scriveva T.S. Eliot nella poesia The Hollow Men (Gliuomini vuoti) del 1925, «non già con uno schianto, ma con un lamento». Dopo il breve singhiozzo, appare un’immagine di coda: «THE END», quasi la fine arrivasse non appena la comunicazione ha avuto inizio. In un attimo, in dodici secondi e mezzo, il pessimismo dell’autore si trasforma in farsa tragica, spettacolo sottratto allo spettatore, negatività adorniana assoluta. Ed ecco subito dopo apparire l’artista senza cravatta, giovane, bello. Mauri spiega il suo lavoro in un minuto e cinquantuno secondi, come farebbe un professore. «L’happening rompe un’azione abituale, usuale, quella di trasmettere immagini, non trasmettendo altro che il televisore in sé stesso», spiega Mauri nella chiosa. Anche i nostri gesti fanno parte dell’happening nel momento in cui accendiamo un televisore che non riesce a produrre immagini, e dove l’artista è tra due schermi, quello di carta che lo nascondeva quando veniva ripreso piangendo e quello dell’apparecchio televisivo. «Io ero sempre qui, dietro allo schermo bianco, è un mio lamento», afferma. È una dichiarazione di poetica, un’assunzione di responsabilità etica; soltanto una breve allusione alle ragioni per cui un televisore potrebbe piangere, anni prima dei “fatti alternativi” e della “post-verità” del mondo odierno – la nostra civiltà digitale dell’informazione, allo sbaraglio tra fiumi d’immagini e tweets: potenziali verità in cui i social media s’intrecciano con il populismo. Ma nel 1972, un lungo, sincopato lamento esce all’improvviso dal televisore, entra nelle case e nei bar. Inaspettatamente, l’oggetto-macchina si antropomorfizza e piange, piange una catastrofe già avvenuta, con un’espressione di dolore profonda.
Il televisore che piange riguarda un tipo di schermo, quello televisivo, a cui alludono tutti i quadri a forma di schermo aggettante che Mauri realizza fino alla morte nel 2009. Poco interessato a sperimentare i nuovi linguaggi video, l’artista voleva svelare l’identità stessa del soggetto mediale. Un importante capitolo della sua opera è in tal senso la serie di Proiezioni realizzate tre anni dopo Il televisore che piange, a partire dal 1975. Letteralmente proiezioni di pellicole di film su oggetti e corpi animati, prendono avvio con la proiezione del film Salmo rosso (1972) sul petto del regista Miklós Jancsó durante l’azione Oscuramento. Non sono proiezioni su grandi schermi cinematografici (dove lo spettatore si distacca dalla vita vissuta, esce dalla realtà circostante per sprofondare nella finzione del cinema), bensì su oggetti e mobili scelti per il loro valore simbolico in relazione al film, e per la loro capacità di dare corpo fisico all’ideologia, al dramma che è raccolto dentro l’immagine, dentro la finzione. In Intellettuale (1975), IlVangelo secondo Matteo viene proiettato su Pier Paolo Pasolini, seduto nel foyer della Galleria d’Arte Moderna di Bologna. L’esperienza è una proiezione di pensieri e pulsioni sul mondo, e il mondo è uno schermo dove scorrono proiezioni. Dare corpo alle proiezioni è anche restituire la proiezione al suo autore: il suo corpo è lo schermo. L’oggetto è il soggetto, come le piccole targhe nere erano altrettanti schermi all’interno degli Schermi degli anni sessanta. La proiezione è materiale e fisica, è oggetto e soggetto: così pure nella commedia concettuale Lezione d’inglese (1977), in cui le scene teatrali dinanzi a cui recitano gli attori sono un film proiettato (e già in L’Isola, scritto nel 1958-1960 e rappresentato nel 1964 e 1966, il linguaggio segnico, sotto forma di fumetto, era stato ingrandito e utilizzato come scenografia).
Intitolate Senza, Senza ideologia e Senza titolo, le Proiezioni trasformano la pellicola e la macchina-proiettore in materiale e materia scultorea attraverso uno sviluppo estremo del principio moderno e brechtiano di mostrare l’artificio per assumerne la profonda realtà. Nel 1975 a Bologna Pasolini era seduto con indosso una camicia bianca sulla quale si avvicendavano le immagini in bianco e nero del film. Sul corpo di Pasolini, quasi prefigurandone la morte, si narra la storia di Gesù con le parole stesse del Vangelo. Le scene ambientate nella campagna del meridione italiano e le figure di contadini veri trasformano la storia in una vicenda anche laica, umana, dove la crocifissione finale è accompagnata dal dramma tragico del dolore, in stile pienamente neorealista, sul viso di Maria. Avvolta in un panno nero e sorretta da donne anch’esse vestite di nero, i visi marcatamente scavati da rughe e pena. «Voi udrete con le orecchie, ma non intenderete, e vedrete con gli occhi ma non comprenderete, poiché il cuore di questo popolo si è fatto insensibile e hanno indurito le orecchie e hanno chiuso gli occhi per non vedere con gli occhi e per non sentire con le orecchie», dice la voce narrante. «Padre mio, perché mi hai abbandonato?» chiede Gesù in croce. «Costui chiama Elia, chiama», dice un soldato. «Vediamo se viene Elia a salvarlo», risponde un altro soldato romano, che incita a non bagnargli la bocca. Gesù lancia un grido, crollano edifici come in un terremoto, la polvere avvolge i Sassi già pietrosi di Matera, e una musica drammatica di Luis Enrique Bacalov (San Martín, 1933 – Roma, 2017), autore di colonne sonore italiano di origine argentina, accompagna la tragica scena.
Forse è proprio il lamento di Maria, che non si sente nel film del 1964 di Pasolini (perché coperto dalla colonna sonora di Bacalov) ma si intuisce dalle sue gesta, ad apparire lampante, solo di fronte al mondo e alla Storia, ne Il televisore che piange di sette anni dopo, nel 1972. È forse proprio questo schermo che piange a diventare, tre anni dopo (il 31 maggio 1975), il petto di Pasolini nell’opera performativa di Bologna, che Mauri decise di chiamare Intellettuale. L’autore del film, Pasolini, diventa il proprio personaggio, è Cristo, assumendo tutta la responsabilità etica e il peso del proprio atto artistico; non può celarsi dietro allo schermo, o dietro a una telecamera, o dietro a una storia catartica di sacrificio altrui. Attonito agente e assieme ricevitore dell’azione culturale. È passato solo un mese dall’ultimo atto della guerra del Vietnam, con la caduta di Saigon il 30 aprile, e ci troviamo a Bologna, cinque mesi prima dell’assassinio di Pasolini, il 2 novembre 1975, sulla spiaggia di Ostia. La vita e la narrazione s’intrecciano, inestricabili, attorno al dramma. L’artista è testimone, e dunque condannato a non essere ancora morto, a essere sempre e soltanto un sopravvissuto il cui destino è quello di raccontare la catastrofe già accaduta, un THE END che ritorna eternamente e senza scampo.
E allora ecco il lamento profondo di uno schermo televisivo “senza”, che ci racconta il suo punto di vista sul mondo. È una macchina schiava degli umani disumanizzati, stanca di mostrarci le immagini dei bombardamenti e del Napalm; è una macchina più tenera di noi, animata da sentimenti che non sentiamo più, tra uno schermo e l’altro, tra un clic e l’altro, un post e l’altro, una fake news o post-verità e l’altra, diremmo oggi.
Contrariamente alla maggior parte delle opere d’avanguardia “moderne”, Mauri intraprende con le sue azioni e opere ideologiche un’analisi retrospettiva del passato in cui il metodo storico, il dare senso agli eventi, costituisce – riguardo al problema dell’ideologia – un analogo del metodo semiologico rispetto al problema dei segni della civiltà massmediale. Il tema dell’interpretazione storica quale necessità di libertà, quale metodo per non essere passivamente vissuti dal linguaggio, è centrale nell’azione Dramophone, presentata allo Studio Cannaviello di Roma nel 1976. L’opera è strutturata in tre parti. Nella prima “stazione”, un cane sta davanti a un vecchio grammofono (allusione al marchio discografico “La Voce del Padrone”) e l’immagine del disco è ancora una volta la metafora dell’esperienza contemporanea come esperienza pre-determinata, già incisa nei solchi. La seconda stazione, dove si vede a parete l’immagine del poeta Majakovskij e quella del generale Huerta, presenta un gruppo di giovani che danzano su musiche rivoluzionarie accanto a un cesto di rose rosse, allegoria dell’esistenza come eterno presente del corpo giovane, votato al sacrificio, immagine dell’abbraccio acritico dell’ideologia. Nella terza stazione, l’anziano attore cinematografico russo Fëdor Fëdorovič Šaljapin, Jr. (Mosca, 1905 – Roma, 1992), che viveva a Roma dal secondo dopoguerra, è seduto in una poltrona. Il vecchio racconta la sua vita, che il destino ha voluto ricca di testimonianze storiche: era bambino alla corte degli zar, ragazzo alla Rivoluzione d’Ottobre, in Germania negli anni trenta, successivamente negli Stati Uniti del New Deal, e quindi, nel dopoguerra, in Italia, a Roma. Ma per l’attore, “vissuto” dalle narrazioni di cui è uno “schermo vivente”, gli eventi sono incidenti, casi sconnessi l’uno dall’altro. L’assenza di metodo storico-critico impedisce il giudizio. Scrive Mauri: «La serie degli eventi gli appare in forma di incidente, in misura inversa e proporzionale alla loro grandezza. Le parti di morte a contraddire le parti di vita, ciò che semplicemente è prediletto, stimato, felice in una o l’altra delle condizioni in cui l’individuo senza metodo si sente chiamato a vivere. Come risulta dal coerente testimone, la memoria proietta, perché scorge; solo presente […]. Senza metodo, la storia è in prestito quanto al senso. Senza metodo, di fronte al passato-presente, la condizione dell’io è meta-storica»
Piuttosto che partecipare al mito del progresso in arte, dunque, lo sguardo di Mauri diventa retrospettivo, fino addirittura a includere un’autentica opera d’arte antica nell’installazione I numeri malefici del 1978. Presentata durante la Biennale diVenezia di quell’anno, dal titolo Dalla natura all’arte, dall’arte alla natura, l’installazione è una riflessione sul rapporto fra arte, natura e male e sulla ricerca di una formula matematica capace di tradurre e comprendere tale rapporto. In gesso bianco su una lavagna, Mauri scrive questa formula, un’equazione che ha ricavato dalla ricerca sul principio dell’errore. All’interno di due gabbie simmetriche, accostate come una cattedra e poste sotto la formula, è sistemato un impianto audio da cui viene trasmesso il potente suono in note basse di un terremoto, che irrompe ogni venti minuti nella sala e oltre. Per terra è distesa, nella prima versione dell’opera, una porzione di affresco trecentesco della scuola di Giotto, Lo sposalizio mistico di santa Caterina d’Alessandria; accanto, una valigetta nera da cui un altoparlante ripete in varie lingue la frase “Cosa è la natura?”, alternata dal ticchettio frenetico del tempo che scorre. Nel 1994, nella mostra retrospettiva Fabio Mauri. Opere e Azioni 1954-1994 presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, l’artista ripropone l’opera sostituendo l’affresco con una litografia di Giorgio de Chirico. Sul muro è appesa una gigantografia del ministro della Propaganda nazista Paul Joseph Goebbels (Rheydt, 1897 – Berlino, 1945), fotografato all’inaugurazione della seconda tappa berlinese della mostra Entartete Kunst nel1938.
Il rifiuto della semplicità del messaggio, la complessità di livelli, la struttura paratattica e l’uso di emblemi, del montaggio fotografico, del collage di linguaggi diversi e di figure retoriche come l’allegoria pongono l’opera di Mauri fuori dal percorso modernista e più vicino ad alcune esperienze di decostruzione e montaggio postmoderne, sebbene non nell’accezione di vuota intertestualità stilistica che il termine “postmoderno” ha assunto nel dibattito culturale italiano; più vicino, semmai, all’interpretazione che ne hanno dato il filosofo Fredric Jameson e il critico d’arte Craig Owens
L’opera come ricerca tautologica del proprio statuto oppure come riflessione sulla percezione visiva sviluppa nell’avanguardia formalista dei criteri di semplicità e di riduzione. Ma tali criteri sono funzionalmente utilizzati anche dalla comunicazione mediale per far passare messaggi semplici e diretti: indurre consumi, manipolare il pensiero, rinforzare ideologie. L’opposto del pastiche postmodernista, refrattario a tale culto della semplicità.
In una delle poche opere in campo urbano che Mauri abbia mai realizzato, quindi, nessuno dei criteri di una corretta comunicazione pubblicitaria viene rispettato. Insonnia per due forme contrarie di universo, presentata nel 1978 nell’ambito della manifestazione N.d.R. organizzata dal collettivo artistico “Uffici per l’immaginazione preventiva”, consisteva infatti in un cartellone stradale diviso in due parti, dove da un lato erano rappresentate due formule fisiche con le rispettive curve matematiche, dall’altro campeggiava l’immagine di un volto d’uomo diviso a metà. La parte sinistra del cartellone propone due modelli diversi di descrizione fisica dell’universo, in condizione di moto e in stato di quiete. Il volto nella parte destra è invece l’uomo “insonne”, scisso dinanzi all’impossibilità di scelta fra i due modelli proposti. Mauri opta per un confronto intellettuale con i passanti attraverso la proposta di un tema scientifico e filosofico che tocca a un tempo la fisica e la metafisica, in antitesi agli schemi comunicativi caratteristici della pubblicità e della cartellonistica. Sceglie di esibire nello spazio pubblico un’immagine enigmatica e di difficile decodificazione.
Mentre uno dei principi fondanti dell’arte contemporanea è quello della rappresentazione mimetica come falsità, come inautenticità, Mauri non esprime alcun rifiuto della mimesi o del concetto di verosimiglianza, perché tutto, nella società mediale, è per sua natura rappresentazione, linguaggio, proiezione. Egli può utilizzare la mimesi verosimile nella costruzione degli oggetti di Ebrea, esattamente come può proporre come opera un effettivo rito religioso: così nella performance Via Tasso: un appartamento del 24 marzo 1993 nell’ex carcere nazista di Roma. Quindi le diverse forme di attività, l’apparente passaggio da una problematica all’altra attraverso gli anni, e da un mezzo all’altro anche nello stesso periodo, costituiscono un elemento fondante e programmatico dell’operazione di Mauri, tesa a restituire la complessità del reale anche al proprio lavoro d’artista, che non deve fondersi in un’utopistica arte totale bensì mantenere proprio l’aspetto di giustapposizione di elementi, sia dentro le singole opere (dove sfuma pure la distinzione soggetto/oggetto) sia a livello esistenziale di vita d’artista. Mauri è contro ogni “professionismo” e “specializzazione” modernisti, che giudica forme di semplificazione falsificatoria dell’esperienza. Il suo è un atto estremo di libertà intellettuale. È un’ipotesi anarchica, tesa a porre la questione della legittimazione della conoscenza e del diritto di critica. Complessità significa anche differenza e disomogeneità, inaccettabile per la società mediale che vuole soprattutto omologazione.
Nel 1979, all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, Mauri inizia a insegnare “Estetica della sperimentazione”, un corso incentrato sulla storia delle avanguardie e sull’estetica, durante il quale, fra teoria e lezioni di laboratorio, nascono alcune delle sue performance più complesse come Gran Serata Futurista 1909-1930 (1980) e Che cosa è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo (1989), messe in scena assieme agli studenti.
Parallelamente, ma in modo riservato, l’artista riprendeva in mano matita e pennello: dipingeva moltissimo, lavorando quasi ossessivamente per nuclei tematici, senza mai esporre queste opere espressioniste e coloratissime. È significativo che negli stessi anni si sviluppava la pittura neo-espressionista della Transavanguardia, che può avere in parte determinato questo scarto, assieme al fatto di insegnare in un’accademia dove spesso i più giovani si cimentano nella pittura e scultura tradizionali; è possibile dunque che in tale contesto l’artista abbia voluto tornare ai propri inizi di giovane pittore espressionista del secondo dopoguerra.
Dal 1981 al 1983 Mauri si misurava instancabilmente con il tema dell’Apocalisse, realizzando una serie di paesaggi dai cieli plumbei con nuvoloni, raggi e trombe che incombono su lande desolate in cui rimangono, superstiti, solo degli esili fiori. Presente in molte opere alchemiche di periodo medievale, il fiore rappresenta l’Apocalisse nel suo significato di rivelazione, chiave con cui l’artista interpreta il testo di san Giovanni.
La riflessione sull’Espressionismo storico e contemporaneo trova esito, nel 1985, nella mostra (Galleria Mara Coccia, Roma), nelle opere e nel libro Entartete Kunst, che prende spunto dall’esposizione dell’Arte degenerata – inaugurata a Monaco nel 1937 – attraverso cui la Germania nazista condannava l’arte delle avanguardie, già precedentemente citata da Mauri nell’opera I numeri malefici.
Poco dopo, tra il 1986 e il 1987, lavorava alla serie degli Scorticati, anch’essi mai esposti dall’artista.Appaiono qui i colori lividi e accesi dei Fauves, a volte anche fluorescenti, a descrivere corpi nudi, scheletrici, privati della pelle, o figure di Adamo ed Eva che citano il Peccato originale (1420-1425) di Paolo Uccello (Pratovecchio, 1397 – Firenze, 1475). Compare la parola “angoscia”, sentimento che Mauri conobbe negli anni della sua malattia nel dopoguerra e che descrisse molti anni dopo: «Dallo stomaco saliva al petto più di un’apprensione, era l’angoscia. Non l’avevo mai provata. Un sentimento scuro soffiava dalla zona presumibile della coscienza e avvolgeva di gelo qualsiasi pensiero o idea»; «Smisi di mangiare e di bere […] ero diventato muto. Pesavo come poteva pesare un uomo di Kirchner, quarantacinque chili, poco più»
Negli anni novanta, con l’avvento della telematica e delle reti informatiche e con la diffusione dei computer, il vecchio schermo dispotico della televisione o del cinema, dalla fruizione frontale e facilmente controllabile, è stato superato. Ciò ha apparentemente restituito un potere al fruitore, diventato ora responsabile delle proprie scelte nel labirintico percorso delle informazioni disponibili: sembrava davvero di essere alle soglie dell’era delle libere scelte. Ma Mauri già sospettava che non era affatto così. Sullo scorcio del nuovo secolo, l’artista si è dedicato all’elaborazione di complesse installazioni dove è tornato lo Schermo come monocromo bianco con la scritta «senzarte», oppure in piombo, materiale duttile, malleabile, ma ottuso e scuro, certamente non riflessivo. La pervasiva preoccupazione degli anni sessanta e settanta riguardo ai rischi della persuasione occulta e della manipolazione del consenso ha lasciato il posto alla diffusa considerazione di un presunto, inutile allarmismo. Si credeva nell’efficacia dei meccanismi di verifica della qualità dei prodotti pubblicizzati, nella crescita della democrazia parallelamente alla moltiplicazione dei mezzi d’informazione, e nell’ampliamento della possibilità di scelta, conseguente alla differenziazione dell’offerta. Ma la possibilità di scelta, nell’ambito di una molteplicità diffusa di messaggi, dovrebbe presupporre che il soggetto abbia il tempo per dedicarsi all’analisi dei messaggi stessi, cioè delle informazioni, per poter operare una valutazione cognitiva. Non si era considerato il fatto che ormai un’intera generazione, cresciuta con la televisione e poi con il cellulare e i social media, aveva introiettato e fatto propria la velocità imposta dal continuo susseguirsi di informazioni, riducendo necessariamente il tempo da dedicare a ciascun argomento. Il soggetto “televisivo” ha sempre avuto scarse capacità critiche, e sempre meno tempo per farne uso. Si riproponeva, soprattutto con l’avvento dello smartphone che integrava computer e telefono in uno schermo-protesi del corpo, una situazione in cui le strategie di comunicazione fanno leva sull’attività periferica del ricevente e non sulla sua attività cognitiva; e questo nonostante la molteplicità dei messaggi.
Le installazioni di Mauri di questi anni, come Interno/Esterno, Studenti, Pic-nic o il buon soldato, Istantanea di un duca morto o Inverosimile, sono dunque una forma di materializzazione ingombrante di grandi banche dati informatiche che lo spettatore può percorrere. Ci si inoltra nelle stanze come se si stesse camminando all’interno di un labirinto di directory e file, colmi di dati. Come lo schermo era il luogo della comunicazione “proiettiva”, così oggi il luogo della comunicazione “interattiva” è uno spazio virtuale nel quale il ricevente s’incammina, prestando a ogni elemento un’attenzione limitata nel tempo. Non vi è più ontologia, non più corpo; ci si aggira in un televisore spento, o meglio, in un archivio immenso, pieno di dati e di tracce disordinate. Il proprio Io (la casa, i libri ecc.), la scuola, l’officina. Mauri non ha vissuto l’avvento dell’intelligenza artificiale con gli algoritmi predittivi, che sono apparsi attorno al 2013-2014 e si sono sviluppati in anni recenti, dopo il COVID-19, nel 2022-2024. Chissà cosa avrebbe fatto del tema della distrazione cronica e della de-cerebrazione delle persone, ove la coscienza umana e la sua capacità di analisi e sintesi sono tolte, demandate ad algoritmi, protesi e LLM (Large Language Models). L’opera di Mauri, come sempre, non simula la comunicazione informatica ma la decostruisce criticamente, e la rivela come potenzialmente pericolosa. L’osservatore/attore percorre le ultime sue installazioni del 2008 senza criteri di scelta, senza poter decidere dove fermarsi e porre attenzione. Se si stava dinanzi ad Ebrea a lungo, osservando il nudo che lentamente e ripetitivamente agiva, ora si cammina velocemente attraverso una mole enorme di elementi – oggetti, mobili, sculture, dipinti, cose vecchie, cose nuove – e mai si riesce ad avere una visione completa, una mappa chiara del luogo della comunicazione. L’ingombro opprime e provoca la perdita del senso d’orientamento
Nell’ideologia partecipativa del nuovo millennio sembra che ognuno possa scegliere il proprio percorso, ma a ben vedere le nuove tecnologie, come tutte le precedenti, non permettono automaticamente una maggiore libertà. Allo stesso modo, nelle sue opere Mauri consente allo spettatore di muoversi nel labirinto dell’installazione – di cui è diventato parte integrante – ma, di fatto, denuncia un’assenza di libertà, provoca disagio e senso di soffocamento attraverso un ingombro aggressivo e pericoloso. Permane una sensazione di frustrazione, acuita dal ricorrere di elementi in piombo e gomma nera. In Studenti lo schermo è ottuso, malleabile e manipolabile, grigio e pericoloso. La rete telematica e l’AI (l’intelligenza artificiale, che Mauri non ha visto) è una gabbia tanto quanto uno strumento: tutto dipende, di nuovo, dall’uso che ne viene fatto. «Il bene e il male», afferma l’artista, «parlano la stessa lingua», come indica il titolo di un’opera enigmatica del 1982, una stampa da matrice in linoleum che riprende il ritratto fatto da Hitler a un suo professore mentre mangia un cono gelato.
Nel 1973 Mauri sosteneva che «La formazione di un pensiero anarchico o di opposizione continua, in una natura razionale, conciliante, è stata, per me, lunga quanto una vita […]. Il linguaggio dell’arte, ho avuto spesso occasione di dire, è propositivo. Conferisce oggettività al pensiero e a ogni apparenza. Enuclea il senso più della scienza, e forse più della filosofia. Fa stare in piedi in modo verosimile Dio, l’uomo, i sentimenti, i pensieri, il giudizio generale e particolare sull’enigma dell’universo. Perciò mi dico anarchico, perciò mi coltivo come artista. Perciò sono contro, perché sarei a favore»
Nel 2005, a Roma, Mauri presentava nell’angolo di uno spazio uno striscione che recitava (ed è titolo dell’opera): Convincimi della morte degli altri capisco solo la mia. Commovente. Mauri aveva 79 anni. Alla fine della sua vita di ricerca intellettuale e artistica, della sua vita anarchica, non era riuscito a comprendere l’enigma più grande dell’universo, THE END, la morte, la fine (e il fine) delle cose. Quella finitudine che, per essere evitata, per paura di essa, trasforma l’umano in agente del Male – mors tua vita mea. Ma proprio qui Mauri capovolge tutto attraverso un atto profondamente religioso, il dono che è l’opera d’arte. Ne assume la morte. THE END.
Fabio Mauri. Esperimenti nella verifica del Male, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli (Torino), 16 dicembre 2023 – 24 marzo 2024, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, Sara Codutti, Marianna Vecellio. Foto: Sebastiano Pellion di Persano.